LE COSE VANNO USATE LE PERSONE VANNO AMATE
Andrea Arnoldi e il peso del corpo
- autoproduzione - 2014
Perché voler essere sorprendentemente originali ad ogni costo? Perché voler necessariamente stupire la folla con effetti speciali? Per quale motivo alzare la posta in palio offrendosi poi al pubblico ludibrio? L'originalità spesso consiste nell'essere molto semplicemente sé stessi, senza folli soluzioni o scriteriate trovate. Quelle di Andrea Arnoldi, ad esempio, si limitano al solo nome scelto come ragione sociale, con quel peso del corpo retaggio di un passato fatto di "costante e personale revisione dei generi" oggi non completamente abbandonata, ma senz'altro più a fuoco e di conseguenza snella. Per tutto il resto la peculiarità del progetto del giovane bergamasco risiede infatti in un forte legame con la tradizione cantautorale italiana in grado tuttavia di confrontarsi con le soluzioni contemporanee adottate da colleghi più noti e riveriti, ma senza perdere in qualità e profondità. Con un cantautorato piano e una metrica chiara, lineare, non priva di qualche volo pindarico così naturale da non risultare mai fuori luogo, LE COSE VANNO USATE LE PERSONE VANNO AMATE rivela una capacità di procedere, leggero, sulla scia di quegli evergreen che hanno fatto storia tanto in Italia quanto all'estero innestando una postura folk minimale e, seppur mai enfatici, arrangiamenti in grado di dare ampio risalto ad una sezione di archi e fiati come difficilmente capita più di ascoltare. Questo è l'asso nella manica di un cd riflessivo e realisticamente focalizzato sul presente e sulla sua ontologica incertezza. Ma anche il suo rischio. Perché neppure gli esponenti più navigati del nostro panorama musicale si sono arrischiati a tanto negli ultimi decenni quando si tratta di proporre brani inediti. Volendo commettere un azzardo la pietra di paragone più inaspettatamente vicina ad Arnoldi risulterà essere per chi scrive quel tanto vituperato Vasco Rossi che dell'irrisolutezza del quotidiano, della labile condizione umana e della precarietà individuale ha approfondito, sempre più negli ultimi lavori, la complessità. Qui ovviamente cadono i tonanti muri di suono eretti dalle chitarre elettriche e non c'è fortunatamente traccia alcuna di infelici pacchianerie elettroniche che hanno pregiudicato la riuscita di album interi; al loro posto misurati interventi di viola, violino e violoncello che la fan da padrone, a loro volta contrappuntati da una serie di altri strumenti cordofoni e a fiato protagonisti di canzoni artigianalmente retrò in cui prevale proprio quel tono colloquiale, sollecito e diretto che a Zocca e dintorni conoscono bene. Ma c'è anche tanto Bubola, molto De André, l'intellettualità di Ruggeri, la smargiassa confidenzialità di Dente, la raffinatezza di Pacifico e perfino la rivoluzionaria operazione cameratesca operata da Le Orme sul finire anni '70; tutto questo per completare un rebus musicale complesso, non privo di ostacoli, e dunque a tal proposito più sentito e vivo, che è specchio artistico di un percorso psicosociale non comune. Una lettura a metà strada fra Bergman e Boccaccio su come va il mondo; in altre parole, una finestra da cui ritrarre la Morte come possibilità di rivincita-redenzione e
l'Amore come unica àncora possibile di vita, non di sopravvivenza.
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