Quintorigo
- Métro - 2012
Quello che qui andiamo a passare in rassegna è un vero e proprio greatest hits. Anomalo, ma pur sempre una raccolta di successi che chiunque ami il rock conosce e apprezza. Difficile approcciarsi ad una materia così nota senza correre il rischio di cadere nel già detto. Improbo al tempo stesso il compito di una rilettura di Jimi Hendrix che possa aggiungere qualcosa di nuovo a pezzi di per sé unici, mantenendo per di più le proprie caratteristiche e senza snaturare l'attitudine dell'esecutore iniziale. Di certo i Quintorigo, forti di uno stile consolidato negli anni, giocano la carta Hendrix inanellando una sequenza di classici che più classici non si può. Difficilmente ne mancherà qualcuno all'appello. Il più evidente resta probabilmente Little Wing, ma l'irruenza di episodi imprescindibili come Foxy Lady, Fire o la già sperimentata Purple Haze, pubblicata inizialmente con John De Leo alla voce in qualità di retro del singolo Kristo, Sì! nel lontano 1999, quindi recuperata qualche tempo fa nella raccolta LE ORIGINI, suggeriscono di lasciare da parte le preferenze personali per gustarsi un viaggio nell'universo del chitarrista più importante di sempre attraverso la dovizia e la preparazione dei quattro strumentisti romagnoli. Il tutto, come da tradizione per chi come loro arriva dal Conservatorio, senza chitarre. Sì, perché anche ciò che si ascolta nella strumentale The Star Spangled Banner sono "semplicemente" ruvide distorsioni di strumenti ad arco, realizzate ad hoc per non perdere un grammo dell'energia profusa a suo tempo dalla rilettura dell'inno americano da parte del chitarrista di Seattle. Lo stesso dicasi per le svisate classiche di Manic Depression. Questa è la reale experience del progetto. Affrontare senza l'ausilio di una sei corde partiture per chitarra che hanno fatto e continuano a fare la storia dello strumento; mai date una volta per tutte, ma sempre aperte alla contaminazione e all'impromptu. Pane quotidiano per la classica strumentazione di Valentino Bianchi e soci: violino, violoncello, contrabbasso e sassofono. C'è anche una voce. Anzi, due. Non più quella irraggiungibile di De Leo, ormai allontanotosi dai suoi ex compagni una vita fa; non la teatralità controllata prodotta da Luisa Cottifogli; non l'ottimo Luca Sapio, ora alle prese con il suo progetto solista. Qua scendono in campo il carneade dall'orecchio assoluto Moris Pradella, alla prima grande chance artistica in studio di registrazione dopo il positivo debutto nel passato tour estivo, e il cantante americano Eric Mingus, figlio di quel Charles a cui i Quintorigo dedicarono nel 2008 l'impegnativo e vincente QUINTORIGO PLAY MINGUS. Una presenza quella di Eric che fa da ponte con il precedente lavoro di riletture, a conferma della volontà del gruppo di confrontarsi con alcune delle colonne portanti della nuova musica classica del Novecento. L'ensemble cesenate va sul sicuro (potrebbe essere diversamente?) con la rilettura di Hey Joe, primo singolo promozionale del disco. Chiede e trova aiuto nel theremin di Vincenzo Vasi per la brillante Voodoo Child; gioca con le note di Spanish Castle Magic e rivitalizza l'indolenza blues di Red House. Gypsy Eyes è scattante e brillante come l'originale presente in ELECTRIC LADYLAND mentre ad Angel si domanda una felice parentesi romantica e sognante. In chiusura arriva il jazz di Up From The Skies, trattata, al pari della riuscitissima Third Stone From The Sun, come se fosse realmente uno standard consolidato del genere, anche per merito dell'intervento pianistico di Michele Francesconi. Sfida vinta anche questa volta per il Quintorigo quartet, capace di mostrare nuovamente la propria versatilità, il proprio eclettismo e un dna davvero solido come una roccia. Anzi meglio, hard as a rock.
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