FAILING
Miriam in Siberia
- autoproduzione - 2014
A quasi una decade dalla loro costituzione i campani Miriam in Siberia giungono in questa anomala fine anno al terzo, agognato, album. È opinione sempre più diffusa che di rock band in grado di smuovere grandi masse in un futuro prossimo venturo non ne nascano più in Italia tra le nuove generazioni. A guardare innanzitutto le classifiche di (non) vendita, il numero di presenze a singoli eventi live in cui nomi comunque affermati riescono a malapena ad andare in pareggio con le spese vive, osservando in seconda battuta una certa disaffezione culturale verso ciò che invece è sconosciuto e diversamente propositivo, sembrerebbe che il pessimismo realista di questi osservatori interessati fotografi in pieno lo stato dell'arte del momento. Poi ti capitano fra le mani lavori come questo FAILING, cinque brani cinque, poderosi e taglienti, capaci di cavalcare l'onda lunga di stoner, hard rock e psichedelia centrifugati con quell'attitudine volutamente lontana dalle mode del momento - ma proprio per questo sempre attuale - che ha caratterizzato la produzione migliore di, tra gli altri, Led Zeppelin e Motorpsycho, e più di una speranza si riaccende. Che il passaggio alla lingua inglese abbia giovato alla causa di Nando Puocci e soci è fuor di dubbio. Dalla title track alla conclusiva Don't Anyone ciò che si percepisce è la giusta quadratura del cerchio dopo gli esordi abbastanza anonimi de IL SUONO DEL PHON e la prima svolta sonora caratterizzante il successivo VOL.2. Un florilegio di immagini, suoni e suggestioni che si susseguono senza soluzione di continuità, riportando alla mente vibrazioni antiche e sollecitazioni maggiormente contemporanee, accomunando la compattezza dei Black Sabbath alle sperimentazioni dei Verdena, le dilatazioni degli Earth alla vorticosa fragorosità dei nostri Ufomammut fino a ripescare dal proprio retaggio culturale, giusto per restare in tema con i luoghi di origine della band, addirittura gli echoes di quegli immaginifici Pink Floyd aggiratisi tra le rovine di Pompei e Pozzuoli oltre quarant'anni fa. Senza perdere mai di vista un innato gusto per quella melodia spigolosa che trovò nella coppia Staley-Cantrell uno sbocco quasi naturale e che oggi viene replicata dai Miriam in Siberia in più occasioni, come ben si evince dalla tortuosa Down From a Mountain, su cui peraltro si innestano tastiere anni '70 di matrice progressiva - altra costante del lavoro - e dalle linee vocali di We Wanna Know. Tutto questo per ottenere un fascinoso space-rock che lentamente, ma in maniera sistematica, allontana da una situazione di ripiegamento e chiusura mentale capace di atrofizzare le volontà prima ancora che le membra; una scossa di elettricità contro la staticità e la precarietà dei nostri giorni, una lotta a spada tratta per non soccombere di fronte ad una aridità di pensiero e azione ancora troppo diffusa. Un tentativo di reazione andato in tutto e per tutto a buon fine, che dà fiducia, addirittura consola, ma chiede di essere apertamente supportato affinché dei Miriam in Siberia non si perdano le tracce. Perché per resistere ed esistere non bastano - purtroppo - soltanto grandi idee e buona ispirazione. Ci contiamo.
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