venerdì 30 novembre 2012

BLANK TIMES
Fausto Rossi
- Interbeat - 2012

"Scrivo ad alta voce perché a fatica riesco a sentire me stesso". Qui, in queste poche ed incisive parole così dense di significato e contenute nell'emozionante I Write Aloud, c'è tutta l'essenza, tutta la sostanza di Fausto Rossi. Musicista con anima e talento sconfinato, dopo anni di volontario (?) silenzio discografico intervallati da alcune sporadiche apparizioni live sempre molto, troppo, centellinate, il fu Faust'O s'è distinto negli ultimi tempi per una prolifica attività in studio di registrazione, capace di coprire i diversi spettri emotivi suoi e dell'affezionato manipolo di aficionados che continua giustamente a seguirlo a fronte di ottimi lavori come l'attuale BLANK TIMES. Tempi svuotati. Tempi di confusione e di caos, resi ulteriormente logori dall'inutilità di una affannosa rincorsa al superfluo e all'accessorio. Un riempire fastidiosamente bulimico che si fa illusorio, che è innanzitutto privazione fisica e in seconda battuta intellettuale poiché, paradossalmente, più si tenderà ad accumulare più verrà a mancare il significato ultimo di un tale frenetico slancio verso il nulla. Muovendosi su registri stilistici a lui assai familiari provenienti dai sempre seminali e amati Beatles (Stars), abbandonata la provocazione à-la METAL MACHINE MUSIC del più ostico BELOW THE LINE, ponendosi in linea di successione al già maturo BECOMING VISIBLE che ha aperto questa nuova pagina creativa del Nostro, il dodicesimo album della sua discografia mostra le radici di un cantautorato rock capace di rifilare ganci diretti (Sogni) con la leggerezza propria di una carezza (Names). Parole centellinate che sono macigni; sensazioni che muovendo dal personale abbracciano un sentire comune, partendo dalla strenua difesa dei sogni cantati nel primo singolo Tu Non Lo Sai (vengono in silenzio e ti rubano tutto quello che hai) fino alle solitarie note della conclusiva Down Down Down. Il j'accuse de Il Vostro Mondo urla disprezzo, sdegno e biasimo per la vanagloria dei poteri forti e del sistema che, con consapevolezza e cinismo, ha annullato il sorriso di generazioni intere. Ma lo fa con quella nobiltà d'animo non scalfibile, alla maniera in cui Cristiano Godano cantava l'altrettanto programmatica Bellezza su BIANCO SPORCO. La musicalità della lingua inglese si bilancia spesso con l'atteso ritorno dell'italiano, quasi a sottolineare l'alternanza tra gli stati d'animo che la lingua di Shakespeare è capace di rendere al meglio grazie a parole funzionanti a mo' di ideogrammi (The Hill) e le immagini più descrittive e definite tracciate con la lingua di Dante (Non Ho Creduto Mai). La melodia riveste quel ruolo preciso e decisivo nell'economia di tutto l'album tale per cui non faticheremmo a concepire i dieci episodi di BLANK TIMES, qui completati da qualche soluzione tastieristica e da una sezione ritmica ben presente, ma mai invasiva, come semplici provini per chitarra e voce. Sobri e urgenti come il percorso attuale di un artista che ha fatto dell'essenzialità una ragione artistica e di vita tout court.
 

giovedì 29 novembre 2012

MORIRE PER LA PATRIA

MORIRE PER LA PATRIA
Fuzz Orchestra
- BlindeProteus/BloodySoundFucktory/BoringMachines/Brigadisco/ CheapSatanism/EscapefromToday/fromSCRATCH/HysM?/IlVersodelCinghiale/Offset/Tandori/ToLoseLaTrack/Trasponsonic/VillaInferno/Wallace - 2012
 
Dispaccio #3. La Fuzz Orchestra è tornata. Minacciosa e irrequieta come suo solito. Dopo aver recuperato con l'omonimo debut album la memoria dell'antifascismo e dello stragismo di stato; dopo aver posto l'accento sull'oscurantismo degli anni di piombo con il successivo COMUNICATO N°2, ora è tempo di rivolgere l'attenzione ad una tematica difficile, e il più delle volte incomprensibile alla ragione umana, come la morte, specie se "ricercata" per "servire" la patria o, in una accezione più ampia, ogni qualsivoglia altra forma di idealismo. Anteponendo l'interesse del particolare alle esigenze dei più; mascherando brama e cupidigia individuali dietro la retorica spesso nazionalistica dei grandi -ismi collettivi. Inseguendo il filo rosso che le manipolazioni sonore di Fabio Fié Ferrario e i riff del chitarrista Luca Ciffo imbastiscono nell'arrangiamento narrativo ci troviamo una volta ancora all'interno di un quadro dalle tinte fosche, ma lucido e completo. Sì, perché ogni uscita dell'Orchestra risulta essere in ultima analisi un concept album non dichiarato, spurio, imperniato sugli interessi socio-culturali del trio milanese nel frattempo impegnato ad apportare una modifica delicata all'interno del proprio organico. Nell'estate 2011 allo storico Marco Mazzoldi è difatti subentrato alla batteria il poliedrico Paolo Mongardi, già Zeus! e Fulk∆nelli, Ronin all'occorrenza e live drums tanto per la colonna sonora originale del Roberto Dell'Era solista quanto per le date negli anni X de Il Genio. Mantenuto l'equilibrio e rodato il nuovo assetto del trio nel corso del tour seguente, i primi abbozzi di MORIRE PER LA PATRIA lasciano ben sperare per il risultato finale. Il sarcasmo con cui deve essere letta la titolazione del terzo lavoro, realizzato tra la Cascina Torchiera e il M24 Studio di Milano, esprime la condanna per le assurdità delle azioni umane compiute in nome di un "ideale" rigettato dai tre meneghini. Con loro, evento finora unico in casa Fuzz, compaiono alcuni compagni di viaggio capaci di modellare attraverso un sentire comune le solide strutture dei brani. Viene Il Vento unisce il free jazz di Edoardo Ricci alle incursioni rumoristiche di Xabier Iriondo, qui alla chitarra; riconoscibili fin dalle prime note i fiati di Enrico Gabrielli fanno da spina dorsale alle trame ritmiche de Il Paese Incantato, brano tagliente che fa il paio con la furia della metallica pazzia religiosa espressa in Sangue. La narrazione in prima persona, affidata ai contributi cinematografici di volta in volta diversi, scorre ora corrosiva, ora beffarda. Ne La Proprietà resuscita il mai dimenticato violino dell'ombroso Dario Ciffo, mentre Gabrielli torna poco dopo, anche al canto. Non stupisce l'afflato di antidogmatica sacralità che il Battista pasoliniano de Il Vangelo Secondo Matteo instilla con In Verità Vi Dico, dal cupo incedere sabbathiano. Riff metallici che paiono provenire dalle cantine di Birmingham tornano pressanti e vorticosi nel caos grezzo della title track così come nell'oscillazione perpetua dell'opprimente Svegliati E Uccidi. Militante come i suoi esecutori, MORIRE PER LA PATRIA consolida, tra invettive mirate e filosofia politica, il ruolo della Fuzz Orchestra nel tessuto sociale attivo del Paese. "Un paese incantato sopravvive, dentro e fuori da noi. Per ritrovarlo dobbiamo essere pronti a sparare, sparare contro tutti i comandi, a cominciare dai nostri. Alzo a battuta zero e fuoco a volontà."
 

mercoledì 28 novembre 2012

EXPERIENCE

QUINTORIGO EXPERIENCE
Quintorigo
- Métro - 2012
 
Quello che qui andiamo a passare in rassegna è un vero e proprio greatest hits. Anomalo, ma pur sempre una raccolta di successi che chiunque ami il rock conosce e apprezza. Difficile approcciarsi ad una materia così nota senza correre il rischio di cadere nel già detto. Improbo al tempo stesso il compito di una rilettura di Jimi Hendrix che possa aggiungere qualcosa di nuovo a pezzi di per sé unici, mantenendo per di più le proprie caratteristiche e senza snaturare l'attitudine dell'esecutore iniziale. Di certo i Quintorigo, forti di uno stile consolidato negli anni, giocano la carta Hendrix inanellando una sequenza di classici che più classici non si può. Difficilmente ne mancherà qualcuno all'appello. Il più evidente resta probabilmente Little Wing, ma l'irruenza di episodi imprescindibili come Foxy Lady, Fire o la già sperimentata Purple Haze, pubblicata inizialmente con John De Leo alla voce in qualità di retro del singolo Kristo, Sì! nel lontano 1999, quindi recuperata qualche tempo fa nella raccolta LE ORIGINI, suggeriscono di lasciare da parte le preferenze personali per gustarsi un viaggio nell'universo del chitarrista più importante di sempre attraverso la dovizia e la preparazione dei quattro strumentisti romagnoli. Il tutto, come da tradizione per chi come loro arriva dal Conservatorio, senza chitarre. Sì, perché anche ciò che si ascolta nella strumentale The Star Spangled Banner sono "semplicemente" ruvide distorsioni di strumenti ad arco, realizzate ad hoc per non perdere un grammo dell'energia profusa a suo tempo dalla rilettura dell'inno americano da parte del chitarrista di Seattle. Lo stesso dicasi per le svisate classiche di Manic Depression. Questa è la reale experience del progetto. Affrontare senza l'ausilio di una sei corde partiture per chitarra che hanno fatto e continuano a fare la storia dello strumento; mai date una volta per tutte, ma sempre aperte alla contaminazione e all'impromptu. Pane quotidiano per la classica strumentazione di Valentino Bianchi e soci: violino, violoncello, contrabbasso e sassofono. C'è anche una voce. Anzi, due. Non più quella irraggiungibile di De Leo, ormai allontanotosi dai suoi ex compagni una vita fa; non la teatralità controllata prodotta da Luisa Cottifogli; non l'ottimo Luca Sapio, ora alle prese con il suo progetto solista. Qua scendono in campo il carneade dall'orecchio assoluto Moris Pradella, alla prima grande chance artistica in studio di registrazione dopo il positivo debutto nel passato tour estivo, e il cantante americano Eric Mingus, figlio di quel Charles a cui i Quintorigo dedicarono nel 2008 l'impegnativo e vincente QUINTORIGO PLAY MINGUS. Una presenza quella di Eric che fa da ponte con il precedente lavoro di riletture, a conferma della volontà del gruppo di confrontarsi con alcune delle colonne portanti della nuova musica classica del Novecento. L'ensemble cesenate va sul sicuro (potrebbe essere diversamente?) con la rilettura di Hey Joe, primo singolo promozionale del disco. Chiede e trova aiuto nel theremin di Vincenzo Vasi per la brillante Voodoo Child; gioca con le note di Spanish Castle Magic e rivitalizza l'indolenza blues di Red House. Gypsy Eyes è scattante e brillante come l'originale presente in ELECTRIC LADYLAND mentre ad Angel si domanda una felice parentesi romantica e sognante. In chiusura arriva il jazz di Up From The Skies, trattata, al pari della riuscitissima Third Stone From The Sun, come se fosse realmente uno standard consolidato del genere, anche per merito dell'intervento pianistico di Michele Francesconi. Sfida vinta anche questa volta per il Quintorigo quartet, capace di mostrare nuovamente la propria versatilità, il proprio eclettismo e un dna davvero solido come una roccia. Anzi meglio, hard as a rock.

venerdì 23 novembre 2012

22-11-2012
- MANZONI live @ Magnolia -
Segrate (MI)

Stre-pi-to-si. Ma stre-pi-to-si davvero!! Troppo spesso capita di ascoltare nuovi album e cd in genere ben prodotti, ben confezionati, ineccepibili dal punto di vista della registrazione; insomma, formalmente di ottima fattura. A quel punto un ascoltatore, che piace pensare essere solamente distratto e non superficiale, potrebbe essere tratto in inganno e, nel tessere labili lodi magnificando l'autore di un prodotto simile, potrebbe scordarsi però dell'impatto e della resa dal vivo che questo spesso non ha. Ormai la prova del nove per capire quanto un lavoro discografico sia realmente, come del resto dovrebbe essere, opera di un Artista con la "A" maiuscola, è questa. Il palco. I ManzOni superano senza grosse difficoltà questa sfida; anzi, dopo averla raccolta, vinta e fissata nel bagagliaio mai colmo dell'esperienza, rilanciano, mettendo in campo con una naturalezza fuori dal comune una formidabile capacità poetica mista a una passione genuina per il proprio lavoro. Ogni loro concerto diventa così un piccolo evento. Questa sera tornano a Milano, in uno dei luoghi che solo due estati fa li ha visti per la prima volta salire su un palco importante e confrontarsi con tante altre realtà del panorama musicale italiano. È la seconda volta che capita quest'anno. Prima headliner di una serata di formazioni brucianti in un freddo giorno di fine gennaio; ora gruppo spalla, gregari di lusso degli attesi e più quotati, mediaticamente parlando, Offlaga Disco Pax.
 
A loro spetta il riscaldatissimo palco esterno del Magnolia (ancora non capiamo come mai solo sette giorni prima a Umberto Maria Giardini e a Matteo Toni toccò l'angusto spazio interno), riempito fisicamente con la loro anomala strumentazione impostata su quattro chitarre, una batteria e un leggio, e le loro inconfondibili figure. Raggiungere le transenne non è un problema. Sul palco Emilio Veronese, Gigi Tenca e Carlo Trevisan stanno sistemando le ultime formalità. Il live parte tra poco meno di cinque minuti. In quell'esiguo arco di tempo arrivano gli altri due chitarristi, Ummer Freguia e Fiorenzo Fuolega. Si percepisce un filo di tensione nel girovagare di Tenca, sempre meticoloso e autenticamente emozionato ad ogni comparsata sul palco, a fronte di una tranquillità e serenità d'animo generali conferite da una lucida consapevolezza dei propri mezzi. "Manzoni". Una sola parola per una presentazione essenziale introduce l'arpeggio di Trevisan che, presto raggiunto dal raddoppiamento acustico di Fuolega, sviluppa la nostalgica parabola di ricordi rievocati in A Mio Padre. Dietro, tocca a Freguia accompagnare con la batteria mentre Veronese interviene  con la sua Stratocaster solo dopo l'intermezzo ritmato a più mani e interrotto dalla scarica adrenalinica che attraversa e scuote Tenca da capo a piedi. Lo spettacolo che si para davanti agli occhi è folgorante. La navigata voce manzOniana vive ciò che canta, ciò che recita, ciò che narra. Parola dopo parola. Gigi Tenca è davvero uno di noi.
 
Eppure è anche la rockstar atipica che mancava in questo nuovo millennio. Testardo come un mulo, ma dal cuore grande così. Dal temperamento pasionario sebbene sinceramente dolce e mite. In una parola: vivo. Prima rivoluzione d'organico. Con tanto di Jazzmaster Freguia avanza sulla sinistra del palco sostituito alle pelli da Veronese; Fuolega, sempre seduto su una sedia in legno, passa alla SG. Il vortice rumoristico di Mario è oggi più che mai di scottante attualità. La rabbia del protagonista è la stessa di centinaia di disoccupati, precari ed esodati italiani che urlano tutto il loro disagio per una condizione sociale intollerabile quando non addirittura insostenibile per sé e i propri affetti. L'accalorata partecipazione alle vicende narrate è tale per cui presto anche il gilet bianco di Tenca viene smesso al termine del brano, mentre un altro foglio viene tolto dal leggio, appallottolato e gettato in terra con non curanza. Per tratteggiare l'espressionismo famigliare de La Toscana sono quattro le chitarre elettriche messe a disposizione dalla band polesana; anche Veronese torna infatti a fronteggiare il pubblico. Tenca resta tuttavia il centro focalizzatore del tutto. Il trasporto emozionale con cui pure il terzo brano in scaletta viene eseguito ha un sapore antico, ancestrale, appassionato e verace. È un cavallo che scalpita l'artista chioggiotto. Sofferente. Riflessivo. Meditabondo. Che cerca in ogni caso di tenere sempre conto dell'esigenza di comunicare, con passione, amore e calore umano
 
Ecco il concetto, calore umano; "serve all'Arte? Credo di sì, perché di tutte le furbizie con i colori, la musica, le parole non rimane niente se non c'è calore umano, adesione alla vita." Così parlava l'indimenticabile Augusto Daolio per spiegare il suo pensiero di artista a 360°, capace di abbracciare tanto la musica quanto la scultura e la pittura. Noi non abbiamo difficoltà alcuna ad applicarlo pure ai ManzOni perché è la medesima attenzione che Tenca rivolge ai suoi scritti ed è il sentire comune presente nelle trame sonore intessute dagli altri quattro imprescindibili elementi. Altro testo gettato a terra e nuovo incitamento del frontman per galvanizzare sé stesso e i suoi compagni di band. Tra loop, stratificazioni chitarristiche e arte povera siede al tavolo de La Garzantina lo spettro di Piero Ciampi. Trevisan gli cede il posto, accomodandosi alla batteria prima di affiancare nuovamente Freguia alla destra di un caracollante e impaziente Tenca. Con una scaletta incentrata sull'ultimo album arriva il momento di Scusami. Tra i momenti più onirici di CUCINA POVERA, la parabola d'amore scelta quasi in chiusura di set racconta un mondo quotidiano che è un piccolo universo, vissuto tra malinconia e scatti di passione mai sopiti, sottolineati col corpo dal suo cantore. Siamo in dirittura d'arrivo. Fuolega ripone l'acustica usata poco fa e si arma nuovamente della "diavoletto" che suonerà con un barattolo di ragù Star. La coppia Trevisan-Freguia è al suo posto come pure Veronese.
 
Tenca continua a guardare intorno a sé, lo sguardo sempre rivolto a terra, cogitante. Si passa in più occasioni una mano fra i capelli. Nessuno, una volta ancora - l'ultima - alla batteria. L'aria si fa cupa quando le prime note si diffondono nell'aria. Tensione anche nelle parole pronunciate con trasporto dall'ex cantante dei Maladives, giunto all'ultimo racconto della serata. E qui, ora, avviene la trasfigurazione. Il momento clou. Lo zenit. Le stratificazioni chitarristiche che fanno da base a La Strada raggiungono il climax nell'inarrestabile crescendo sonico degli strumenti che le producono, quelle stesse quattro chitarre che, ognuna seguendo la propria via, perseverano nella loro orchestrata corsa solitaria incontrandosi solo alla fine, in un punto geometricamente astratto dell'ambiente in cui sono percosse e suonate; buco nero elettrico e inesplorato dal quale fuoriescono nuove parole e nuovi suoni. Hic et nunc. Il fragoroso muro di suono cede il passo alle ultime riflessioni ritmate dalla batteria di Fuolega e dall'acustica di Veronese. "...e alla fine ti dirò che, fin quando vedrò quel sole tondo, ora rosso al tramonto,  starò lì a guardarlo e lo applaudirò." Una frazione di secondo di sospensione poi l'ultima parola: "ManzOni." Così come era iniziato. Trenta minuti per condividere una esperienza personale che trascende nell'universale prima di farsi nuovamente particolare. Vengono ancora alla mente le parole di Daolio, inatteso spirito affine: è "(...) una specie di confessione. Prima ad uno spazio bianco; poi ad altri che guarderanno." Trattare il vero. Questo è. Ricetta classica ManzOni.
 
Andrea Barbaglia '12

un link al seguente post è presente qui: http://www.facebook.com/manzoniband  qui: http://www.facebook.com/luigi.tenca.3 e qui: http://www.facebook.com/fleisch.ufficiostampa 

martedì 20 novembre 2012

27 novembre - 09 dicembre 2012
MOLESTIA @ PARTE
Comicità e Musica d'autore
ALBERTO PATRUCCO
Daniele Caldarini (Pianoforte, Tastiere, Programmazione, Arrangiamenti e Direzione Musicale)
Francesco Gaffuri (Contrabbasso e Basso Elettrico)
Testi di Alberto Patrucco e Antonio Voceri
Musiche di Georges Brassens
Produzione Moroni in scena srl
live @ Teatro della Cooperativa - Milano (MI)
 

Siamo certi di aver imboccato la strada giusta? Alberto Patrucco se lo domanda in MOLESTIA A PARTE, una panoramica al vetriolo priva di retorica e tormentoni, dove i tempi che stiamo vivendo sono riletti attraverso la comicità e la grande canzone d’autore.
È uno spettacolo capace di fondere in modo insolito musica e monologo, alla costante ricerca della risata liberatoria e con l’obiettivo di superare quel modo di far satira che sembra aver preso il sopravvento in questi anni, troppo spesso appiattita sulla stretta attualità. Qui, al contrario, si superano i luoghi comuni e si mettono alla berlina le certezze di chi è convinto d’essere superiore all’altro, di chi crede che il Medioevo sia soltanto Storia o che la crisi sia esclusivamente economica e non soprattutto di identità.
Seguendo il filo rosso della direzione di marcia, MOLESTIA A PARTE muove intorno a una domanda: l’uomo sa dove sta andando? Già, perché se Cristoforo Colombo scoprì l’America convinto di essere in India, cercare forme di vita su Marte quando già ci sta sullo stomaco il vicino di casa non sembra molto più sensato.
Scritto a quattro mani con Antonio Voceri, lo spettacolo si regge sulle note e le rivisitazioni musicali di Daniele Caldarini e Francesco Gaffuri e sulla intensa interpretazione di Alberto Patrucco.
MOLESTIA A PARTE sviluppa temi non banali con uno sguardo comico, disilluso, a volte corrosivo, senza rinunciare a quel tocco di poesia che la grande musica d’autore cuce addosso alle parole.


 
BIGLIETTERIA
Prezzi dei biglietti
intero: 18€
ridotto under 27 e over 60: 9€
convenzionati: da 13€ a 8€ - clicca qui per scoprire le convenzioni

Orari spettacoli:
da martedì a sabato ore 20.45
domenica ore 16.00
lunedì riposo

Per informazioni e prenotazioni:
02.64749997
dal martedì al venerdì
dalle ore 10.00 alle ore 13.30 e dalle ore 14.30 alle ore 19.00.

Ritiro dei biglietti:
entro 45' dall’inizio dello spettacolo.

È sempre possibile prenotare via e.mail all’indirizzo: info@teatrodellacooperativa.it

venerdì 16 novembre 2012

I WANT TO TELL YOU
- The Van Houtens - 2012
 

Directed by: & (Carlotta Cardana & Marcos Villasenor)
Assistant Director / DIT: Marcella Foccardi
 
Filmed between London and Castello Dal Pozzo, Oleggio Castello (NO)

in concerto

15-11-2012
- MATTEO TONI live @ Magnolia -
Segrate (MI)

Eh già. Matteo Toni non è affatto un bluff. Seduto con, sulle ginocchia, la sua fidata Weissenborn, che abbiamo imparato ad apprezzare nell'album SANTA PACE, e con una pedaliera di tutto rispetto ai suoi piedi, ci attende questa sera in quel del Magnolia, alle porte di Milano, opening act per la data milanese del fu Moltheni, già Pineda ed ora semplicemente Umberto Maria Giardini. Per la verità non molta gente si incontra nel locale alle 22:00, ma siamo in una giornata infrasettimanale e l'orario di inizio per il live di Toni è quantomeno inatteso. Annunciato inizialmente come seconda proposta del bill dopo il propositivo cantautorato alternativo di Adele e il Mare proveniente direttamente da Lambrate, l'ex frontman dei sUngria si troverà infatti un poco a sorpresa (almeno per noi) ad aprire la serata, forse anche per consentire a lui e al fidato Giulio Martinelli un rapido spostamento in vista della data fiorentina l'indomani sera. In definitiva, con un manipolo di astanti presenti e l'attenzione che poco per volta viene catturata anche agli avventori abituali del bar, la premiata ditta Toni-Martinelli occupa il palco principale all'interno della struttura su cui successivamente performerà lo stesso Giardini con la sua nuova band. Si parte programmaticamente lenti con Melodià, primo estratto dal disco di debutto. Il brano di per sé mostra già il campionario tecnico e il bagaglio artistico del duo emiliano, ma l'acustica del locale questa sera è decisamente pessima. Forse perché il palco interno poco concede a una strumentazione rock. La batteria "frigge" e la voce arriva confusa. In cabina di regia l'esperto e navigato Antonio "Cooper" Cupertino, uno che ne ha viste di cotte e di crude da anni sui palchi italiani, si fa in quattro insieme ai tecnici della struttura per limitare i danni e consentire, ai musicisti prima e alla cinquantina di paganti poi, una riuscita accettabile della serata. 

Matteo, pur consapevole dei bisticci sonori che limitano la bontà del suo set, pare non preoccuparsi troppo delle difficoltà cui sta andando incontro. Imperterrito, continuerà a suonare, come una locomotiva a vapore che, messasi in moto, poco per volta aumenta di intensità, sbuffa e accellera, fino a raggiungere una velocità costante di marcia lungo l'attraversamento dell'ambiente circostante, che cambia intorno a lei chilometro dopo chilometro. Fino alla destinazione finale. La sincopata Isola Nera, con i suoi ritmi stoppati, è la prima fermata del viaggio. Blues accattivante che cresce ascolto dopo ascolto, ha la buona ventura di far smuovere le prime testoline che poco per volta si avvicinano al palco mentre le conclusive trame slide di Weissenborn mettono in chiaro la bontà del musicista. Tempi rilassati, un'armonica a bocca e sound caraibico-giamaicano in levare per Santa Pace: in pochi minuti ci si trova spiaggiati su un'amaca a sorseggiare pigramente un drink. Si respira internazionalità tra una accellerata blues e un rimando black, come se Ben Harper, Jack Johnson e Xavier Rudd avessero la visione di Bob Marley e decidessero di raggiungerlo per una jam collettiva. Il viaggio procede con i ritempranti ricordi dell'infanzia de I Provinciali Di Nuoto forse non l'episodio più riuscito del cd, almeno per chi scrive, ma pur sempre un altro discreto biglietto da visita nell'economia del progetto, un po' Pearl Jam senza codici, un po' folk e melodia italiana insieme, e con un Martinelli preciso e secco metronomo umano. Certo, per quanto si sia assestata su livelli sufficienti, ribadiamo che un'acustica migliore avrebbe reso giustizia in ben altro modo alla coppia modenese e penalizzato decisamente meno le orecchie degli ascoltatori. Resta davvero incomprensibile la scelta di non aver utilizzato il palco esterno, ma tant'è. Procediamo.
 
Dietro di noi Marco Marzo "Maracas", il professor Giovanni Parmeggiani e Cristian Franchi, ¾ della prog band Accordi dei Contrari che di lì a breve accompagnerà il buon Giardini, assistono in silenzio alla performance. Il programma prevederebbe a questo punto la cheta Acqua Del Fiume, penultimo estratto da SANTA PACE, ma i tempi stretti, le già più volte rimarcate non perfette condizioni audio e la decisiva voglia di accellerare in vista dello sprint finale modifica strategicamente la scaletta. A ricordare l'esordio di QUALCOSA NEL MIO PICCOLO ecco arrivare Fluir, seconda traccia dell'ep prodotto due anni fa, guarda un po', dall'allora Moltheni. Qui l'originale composizione uptempo viene ampiamente sviluppata e raddoppiata nel minutaggio, regalando fin dall'apertura un continuo susseguirsi di digressioni e improvvisazioni slide, ora sognanti ora più interlocutorie. Finale quindi col botto nell'infinita sfida di Bruce Lee Vs Kareem Abul Jabbar, con una chitarra a questo punto davvero calda e arroventata, che sfrigola, accellera, diventa ulteriormente incandescente, butta fuori sudore, sprizza energia e, indemoniata, non trova volutamente requie, seguita come un'ombra dalla batteria quadrata di Martinelli, quasi mai sotto le luci della ribalta, ma potente e presente, a percuotere le pelli e battere il ferro finché caldo. Così si conclude il set di Matteo Toni anche questa sera: in un vortice sonoro capace di recuperare tutta la tradizione ancestrale del blues, farla propria e filtrarla attraverso la passione per sonorità  altrettanto carnali, ma di matrice differente che vanno a combaciare con quell'immancabile gusto italiano per ritmo e melodia tipicamente cantautorali. Duecentodieci minuti di nutriente e saporita carne al fuoco. Carburante energetico. Dinamico. Inarrestabile. Avanti così.
 

martedì 13 novembre 2012

10-11-2012
- STEVE VAI live @ Gran Teatro Geox -
Padova (PD)

Anche questo weekend diluvia abbondantemente sulla nostra music road. Oltre tre ore di viaggio "allietate" da una pioggia incessante e da raffiche di vento importanti ostacolano solo in parte il chilometraggio che ci separa da quel piccolo grande gioiellino acustico che è il Gran Teatro Geox di Padova. Da qui prende infatti avvio la tre giorni italiana di Steve Siro Vai, funambolico guitar hero di fama mondiale che non necessita certo in questa sede di presentazione alcuna, ma che fa sempre piacere ricordare sia legato al Belpaese da un cordone ombelicale unico, dovuto alle sue origini lombarde, pavesi per l'esattezza, e che appunto torna oggi a calcare il suolo italico a soli tre mesi e mezzo dall'ultima tappa con il suo G3 in quel di Vigevano quando, nel luglio scorso, trascorse con moglie e figli gran parte della giornata a Dorno, paese natale dei suoi nonni, per riceverne la cittadinanza onoraria. Le ultime notizie prima dello sbarco in Europa hanno purtroppo fatto registrare una defezione nell'organico del bill. La polistrumentista e cantante Beverly McClellan, che dopo l'ottima accoglienza nella tranche americana del tour, in un primo momento era stata confermata e annunciata come opener pure nel corso delle imminenti date europee, è stata infatti costretta a dare forfait per motivi familiari tre giorni fa, al termine delle date in Turchia. Difficile pianificare una sostituzione. Vai e la sua band basteranno a sé stessi e alle oltre 1600 persone accorse per assistere al tour in supporto a THE STORY OF LIGHT.

È l'imponente occhio della scenografia che riproduce la copertina della sua ultima fatica in studio a scrutare nell'oscurità del parterre patavino prima che una scarica di luci, fumo e clangori metallici annunci l'arrivo dell'atteso chitarrista. Steve Vai sale sul palco di nero vestito, con un paio di pantaloni dagli accesi disegni floreali che, a tutta prima, riportano alla mente il celebre dragone ricamato sull'abito di un Jimmy Page d'annata immortalato nel concerto dei Led Zeppelin all'Earls Court di Londra nel 1975. Cappello e occhiali di scena coordinati, il longileneo artista di Carle Place apre le danze con le nuove Racing The World e Velorum, elaborate composizioni provenienti dal secondo capitolo della trilogia iniziata con REAL ILLUSIONS: REFLECTIONS, dopo il primo cambio di chitarra e al termine di una breve introduzione accolta dall'ovazione della folla. Sempre un po' eccessivo nelle pose, ma dotato di una straordinaria classe innata, Vai cammina, si dimena, balla e svisa lungo tutto l'asse orizzontale del palco, senza soluzione di continuità, ammiccando alle prime file, elargendo sorrisi e smorfie, prodigandosi nei virtuosismi per cui è celebrato. Senza perder tempo in lunghi convenevoli la presentazione dell'eccellente quartetto che lo accompagna si fonde nella mastodontica Building The Church, occasione per un duetto tra l'Ibanez EVO, in tapping, e l'arpa elettrica della veterana Deborah Henson-Conant, al suo primo tour con Vai. Il prolungato vibrato degli assoli susseguenti regala nuovi brividi. 

Un balzo indietro nel tempo con le lancinanti note blues di Tender Surrender quindi un altro capitolo dalla saga della luce: la ritmata progressione strumentale e le sfrenate ripartenze di Gravity Storm illuminano la serata e fanno da preambolo al successivo spazio solista affidato al navigato Dave Weiner, al fianco di Vai dal lontano 2000. Armato di una PRS acustica e lasciato in solitaria sul palco, il trentaseienne chitarrista americano, fresco di release estiva, si prodiga in una sequenza strumentale tratta dal nuovo COLLECTION OF SHORT STORIES: VOL.1. da cui esegue l'ariosa The Four Winds. Nel mentre, cambio d'abito per Vai e ultimi bagliori provenienti da THE STORY OF LIGHT con la tonante Weeping China Doll seguita dalla dolci note di The Moon and I, "...a song about freedom", primo momento cantato della serata e, in quanto incantevole melodia per chitarra, posta come tradizione vuole al settimo posto della setlist. Da qui in avanti è un continuo pescare a piene mani nella storia dell'artista italo-americano, spaziando tra momenti irrinunciabili e sorprendenti ripescaggi. Si comincia con PASSION AND WARFARE e l'energetica The Animal; quindi è la volta di una dilatata Whispering A Prayer, la canzone dedicata all'Irlanda contenuta originariamente nel doppio ALIVE IN A ULTRA WORLD, per poi tornare al 1990 con l'imprescindibile heavy-boogie selvaggio di The Audience Is Listening, magistrale dimostrazione di tecnica superiore coniugata a una sempre più naturale e consumata abilità di intrattenitore. 

Un attimo di quiete per il prodigioso musicista mentre l'atteso assolo per arpa elettrica e contrabbasso is on the line. La maestria di Deborah Henson-Conant, fin qui tutto sommato un poco in ombra, unita qualche istante più tardi alle poderose note grevi provenienti dallo strumento dell'ottimo Philip Bynoe, autentico maestro del basso sei corde, ammaliano i fans che si lasciano coinvolgere dalle celestiali note discese in Terra grazie alla pizzicatura delle corde dell'insolito strumento. "Are you having a goodtime so far tonight?" domanda il redivivo Vai, di rientro dalle quinte poco prima di ritagliare all'interno del concerto un inatteso momento semi-plugged. Accomodatosi su uno sgabello, in sinergia con i suoi musicisti, eccolo all'acustica e al microfono per una Rescue Me Or Bury Me dal finale nervoso, unica gemma proveniente dal folle SEX & RELIGION, e legata ad uno stralcio di Sisters su cui duettano in fraseggio le chitarre dello stesso Vai e di Weiner, prima del suggello finale affidato al contrabbasso di Bynoe. È in questo istante che ci si accorge dell'assenza di Jeremy Colson, batterista non nuovo da queste parti avendo accompagnato l'ex Generation X Billy Idol nella riuscita data di Piazzola sul Brenta a inizio luglio. Con aria divertita Vai invita il pubblico a chiamare a gran voce il piccolo drummer finito chissà dove; Padova non si fa pregare e il faticatore del ritmo risponde alla chiamata presentandosi on stage indossando un luminosissimo set composto da piatti, percussioni e batteria elettronica.

Così bardato, e dando spazio al fumoso teschio parlante eyes-without-a-face che anima l'attrezzatura, dopo un apprezzato siparietto comico con Vai, Colson si cimenta in compagnia dell'axe man in Treasure Island e, con il supporto di tutta la band, nella rilassata Salamanders In The Sun seguita dall'arabeggiante Pusa Road. Il successivo, potente, assolo di batteria è la degna conclusione dello spazio riservato al biondo batterista. Per The Ultra Zone Steve supera invece sé stesso quanto a coreografia e presenza scenica. Nella cortina di fumo che avvolge il palco avanza tra le luci epilettiche del palco un cyborg alieno, messaggero intergalattico le cui lunghe dita luminose poggiano sull'Emerald Ultra guitar, avveneristica e cangiante creazione di vetro e carbonio a sei corde il cui design, realizzato dall'irlandese Alistair Hay, prende spunto dall'illustrazione che Aaron Brown fece per la copertina di THE ULTRA ZONE, il futuribile album del 1999. Carico di luci che ne delineano la sagoma e il corpo, Steve Vai lascia tutti a bocca aperta in questa veste extraterrestre dalla quale si libera solo per omaggiare il mentore Frank Zappa nell'omonima Frank. Capace di rinnovare la propria musica e il proprio personaggio senza essersi mai adagiato su facili formule comode e redditizie né aver mai fatto della convenienza la propria ragione d'essere, Vai passa allo step successivo chiamando sul palco un terzetto di ignari spettatori. È il momento di musica componibile con l'improvvisazione di Build Me A Song.
 
Su suggerimento degli ospiti e imbeccata dalle successive dritte di Steve, la band arrangia, musica ed esegue in diretta, in una parola "costruisce" gli spunti sonori proposti dai ragazzi con la loro nuda voce. Istanti di stupore e meraviglia. La libera interpretazione e l'imprevedibilità stessa di un canovaccio assolutamente inatteso e ogni sera a suo modo unico e irripetibile, permette tanto di interagire con l'audience quanto di mantenere sempre alta l'attenzione dopo quasi tre ore di concerto. Perché la musica è anche un gioco. Poi, ultimo cambio di chitarra ed è l'apoteosi, con l'orchestrazione di una sempre maestosa For The Love Of God che avvolge nelle sue melodie e nei suoi passaggi più ardui il Gran Teatro Geox e quanti attendono l'imminente conclusione della serata (anche solo per lavoro) nel foyer lì adiacente. Le note scorrono fluide, legate dall'abilità del suo esecutore che per quasi un quarto d'ora tiene in pugno tutti quanti prima di abbandonarsi ad una scoppiettante chiusura col botto affidata al bis richiesto a gran voce di Taurus Bulba. Soddisfazione. Questo è il sentimento principe della serata. C'è tempo per un rigenerante drink e una attenta occhiata al merchandising. Quindi è già tempo di rimettersi al volante e tornare a macinare chilometri su chilometri. La pioggia diventa presto nostra compagna di viaggio, eppure nell'oscurità della notte una luce all'orizzonte annuncia una domenica di tutto sole. "I have been blessed. Thank you."
 
Andrea Barbaglia '12
 
gli scatti pubblicati sono opera di Marco Peruzzo per Zed! Entertainment

venerdì 9 novembre 2012

UNDERWATER
The Leeches
- Tre Accordi Records - 2012

C'era una volta il punk. Non quello codificato nelle pose e nei gesti dal visionario Malcom McLaren attraverso i suoi Sex Pistols. Non quello volutamente e ampiamente contaminato dei Clash. Non quello invecchiato male degli Stranglers. Non quello già tardo di Buzzcocks e UK Subs. Insomma, dall'altra parte dell'oceano Atlantico c'erano gli imprescindibili Ramones. "I portavoce degli emarginati e delle persone disturbate". Così si espresse il prestigioso New York Times a proposito della band dei quattro (che poi tra abbandoni e nuovi arrivi ne abbiamo contati fino a otto) fratelli Ramone. Il punk più innocente. E dunque sincero. Il punk meno politicizzato eppure anche più socialmente radicale e radicato nelle vite di tutti i giorni. Ebbe a dire Johnny Ramone nel 1976: "Gli inglesi si lamentavano delle file per ritirare il sussidio di dissocupazione quando i Ramones negli USA non potevano disporre nemmeno di buoni per i viveri". Il punk nudo e crudo, dei tre accordi e via. Quello too tough to die? Sì, perché ancora oggi, nonostante la prematura scomparsa di ¾ di quella band tanto seminale, nessuno ne ha dimenticato l'importanza e anzi, in migliaia son rimasti colpiti e affascinati dalla proposta capace di condensare velocità e melodia in meno di centoventi secondi. Anche qua in Italia. E oggi è, nuovamente, il turno dei Leeches. Tredici tracce in soli ventotto minuti. Da Como. Con inesausto entusiasmo e tante idee chiare su come far suonare bene anche su disco la carica e il cazzeggio espressi dal vivo. I Leeches succhiano per la verità un po' a destra, un po' a sinistra; si affidano ad un autore e produttore storico di casa Ramone come Daniel Rey, fra l'altro non al primo approccio con la musica di casa nostra, e sfornano un condensato di potenza, nientefumotuttarrosto, sempre in perfetto equilibrio tra esigenze hardcore e pulsioni pop. Senza soluzione di continuità la misfitsiana I'm Everything To Me, il singolo Piranha Boys, la ramonesiana Serious, i Dead Boys di Feelin' Alright Tonight, la damnata Down On My Knees, i Bad Religion di Vanilla Coke, gli Exploited di Stop The Clock, l'epilettico nuovo omaggio a Joey, Johnny, Dee Dee e Tommy di Nothing At All e My Life, i Real Kids di Standing On My Tomb, i Neurotic Outsiders di Too Hungry To Pray si succedono fulminanti e bombaroli, schegge impazzite affiancate dall'inattesa coverona dei Blue Öyster Cult ME-262 e dai brillanti rimandi agli Heartbreakers di Johnny Thunders presenti nella conclusiva Into The Storm. Una formula che al quarto album non stanca affatto, ma anzi pare rilanciare gli inventori del fat rock verso un songwriting a suo modo personalissimo e destinato a resistere. Certo, gli strepitosi Senzabenza di GIGIUS e DE-LUXE - HOW TO MAKE MONEY WITH PUNK ROCK sono ancora irraggiungibili, ma underwater nuove forme di vita si muovono, respirano, avanzano e tentano l'aggancio. Voraci e predatrici. Come vipere di mare.
 

martedì 6 novembre 2012

04-11-2012
- SCARLETT JANE live @ Trapani -
Pavia (PV)

Condizioni meteo decisamente autunnali per questa prima domenica di novembre, con rovesci d'acqua annunciati lungo tutta la prima parte di giornata e una pioggerellina fine e penetrante verso sera. Non certo la miglior accoglienza climatica per le brillanti Scarlett Jane, duo composto dalle affascinanti cittadine del mondo Andrea Ramolo e Cindy Doir al primo tour europeo congiunto della loro carriera. Direttamente dal Canada; a due passi dall'ascoltatore. With (bluegrass) love and (folk) passion. Con un paio di nomination, tra cui quella di miglior artista emergente dell'anno, agli imminenti Canadian Folk Music Awards che si terranno dal 15 al 17 novembre nel New Brunswick, le giovani scommesse del cantautorato della foglia d'acero approdano lungo le sponde del Ticino dopo aver letteralmente infiammato le provincie di Brescia, Como e Genova, offrendo sempre un set di qualità e briosa verve in cui le armonie vocali di Andrea e Cindy ben si sposano con il caldo songwriting proposto e offerto nel loro debut album STRANGER. Ubicato nel quartiere Mirabello, Trapani è invece un pub-trattoria dalla trentennale esperienza nella ristorazione che negli ultimi anni ha fortemente voluto aprirsi alla musica "in una atmosfera calda e amichevole in cui è possibile degustare le specialità del posto e incontrare gli artisti  più interessanti." Anche oggi non si fa eccezione. A sorpresa l'orario di questi incontri, veri e propri concerti che esaltano la dimensione unplugged e garantiscono una buona tenuta elettrica, viene mantenuto costante, salvo rare eccezioni, alle 18:30. La sala è la stessa usata per i pranzi e per le cene, adiacente al bancone e con una dozzina abbondante di tavoli, tutti prenotati, in un ambiente rustico e familiare; la mossa si rivela vincente giacché anche questa sera i risultati, per oste e musicisti, non tardano ad arrivare.

Di nero vestite e con un sorriso smagliante dispensato a destra e a sinistra, le Scarlett Jane avanzano sicure e anche un po' divertite tra gli applausi di un pubblico eterogeneo in attesa dello show. Si spengono le luci. Inforcate le due chitarre acustiche, Gibson per la Ramolo, una "canadesissima" René Roy mancina per la Doire, l'attacco della serata è affidato alla malinconica The One I Love Is Gone di Bill Monroe. Le qualità del duo vengono subito messe in luce attraverso l'ottima amalgama vocale, che si rivelerà punto di forza negli oltre novanta minuti di concerto, supportata da una accorata interpretazione in perfetta simbiosi con una presenza scenica invidiabile. Grazie ad un ottimo italiano, inframezzato da qualche concessione all'inglese, che rivela le origini molisane di Andrea, e con un pizzico di cadenza transalpina che non guasta mai nella pronuncia francese di Cindy, il contatto con il pubblico pavese non si limita ad un semplice monologo di routine, ma è occasione per un continuo scambio di battute e qualche siparietto divertente. I volumi sono forse un poco bassi, ma considerando lo spazio raccolto nel quale si esibiscono sono pure quelli giusti: non una sbavatura o una nota fuori posto lungo tutta la sempre più calda serata. Una catchy Wild Fire (che in questi tempi vi accoglierà ogniqualvolta aprirete il sito www.scarlettjane.com) e la sofferta, ma ariosa Aching Heart, scritta da Andrea al termine di una travagliata relazione con un suo ex fidanzato, sono i primi estratti da STRANGER.

Se da un lato, grazie alla misurata produzione di Stew Crookes, il primo lavoro delle ragazze dell'Ontario, in itinere, ha saputo far esprimere al meglio una full band di anche otto elementi, dall'altro, a registrazioni completate, è stato in grado di aggregare una decina di episodi estremamente validi, capaci infatti di reggersi autonomamente sulle proprie melodie e con l'ausilio delle sole chitarre acustiche, supporto quasi naturale per le voci delle sue autrici. Per emozionare spesso basta poco; Ride On, anche conosciuta nella sua stesura originaria come Ain't No Gold, celebra, ci ricorda la Doire, la vita dura ai tempi del post boom economico generato dalla corsa all'oro tra Yukon e Klondike, quando l'esaurimento dei filoni auriferi avrebbe lasciato in eredità autentiche città fantasma laddove prima commercio e traffici mercantili garantivano ricchezza e prosperità. Spetta alla Ramolo, titolare di una carriera solista con all'attivo già due album, prendere nuovamente la parola per introdurre Just You, accattivante composizione d'amore rock proveniente dal suo THE SHADOWS AND THE CRACKS uscito solo un anno fa. Di contro, la sua collega Doire, addirittura al terzo album solista, ci omaggia con una intensa Ciao Ciao Chéri, prima canzone da lei scritta in francese per il suo debutto discografico del 2007, LA VIE EN BLUEBang Bang (My Baby Shot Me Down), qui riarrangiata in maniera sinuosa e suadente, e con una Greenville, in origine eseguita da Lucinda Williams ed Emmylou Harris, che è all'origine del riuscito sodalizio tra le due artiste canadesi. "...this one's for fun!" Il tributo a Loretta Lynn con la blueseggiante Have Mercy è il preambolo per l'annunciata chiusura di primo set. Poi pausa. Caffé. Sigaretta. Chiacchiere. Comunque pausa. Come a teatro.

Al rientro in sala è una cupa versione unplugged di Down By The Water dei Decemberists a ipnotizzare tutti quanti mentre le stagioni della vita passano velocemente. "Facciamo qualcosa di difficile... In italiano, sì? Ieri sera l'abbiamo sbagliata, ma la proviamo ancora oggi per voi." L'inattesa Ma Che Freddo Fa a due voci è accolta con calore ed euforia. La premiata ditta Ramolo-Doire trasfigura l'evergreen della nostra Nada Malanima in una brillante alternative folk song, restituendole uno charme stradaiolo andato perduto. O forse addirittura mai posseduto. La prossima è "una canzone che abbiamo scritto per mia madre che ha perduto suo marito, mio papà, quindici anni fa. Questa canzone è un po' triste, ma si chiama "bella", Beautiful... Per me." Il pubblico viene rapito da questa amara ballad sulle resposabilità che la vita a volte riserva e segue con quella naturale curiosità di chi ascolta i pezzi per la prima volta. Quella stessa curiosità che accompagna il successivo racconto di Andrea: "Stasera qua c'è una amica con cui ho frequentato la scuola secondaria in Canada. Tania! Lei adesso abita a Pavia per lavoro e vuole che suoniamo la prossima canzone. Questa canzone è molto vecchia e non ricordiamo bene le parole. Ma proviamo; proviamo per te, solamente per te, Tania! È una bella canzone... Si chiama Thank You For The Ride." Dal primo album solista della Ramolo ecco una nuova canzone d'amore in cui l'apporto della Doire è per la prima volta concentrato quasi esclusivamente sui cori.

Cindy guadagna la ribalta poco dopo con una composizione tratta dal suo STICKS AND MUD: "La prossima è la canzone più vecchia delle Scarlett Jane, di quando eravamo ancora solamente due artiste soliste. Si chiama Mama's Last Song." "Per le mamme!" aggiunge Andrea; poi in coro, rivolte entrambe alla storica proprietaria del Trapani "Per Meri, questa canzone è per te!". Torna Lucinda Williams attraverso la rivisitazione della ritmata Can't Let Go quindi è il turno degli ultimi fuochi tratti da STRANGER. In rapida successione ecco dunque la carica dirompente di I'm Gone ("una canzone che ho scritto on the road... Sometimes it gets so lonely... Ma non con le Scarlett Jane!!"), la straordinaria e spettrale Burning Up, che non avrebbe difficoltà a trovar spazio in un  ipotetico sequel del pluripremiato RAISING SAND di Robert Plant e Alison Krauss, e il country più tradizionalmente noto immortalato nelle immagini di Can't Come Back. Applausi a scena aperta una volta ancora. Giunge così il momento dei saluti per le tatuate musiciste canadesi. Ma c'è ancora tempo-spazio-voglia per un ultimo bis. A cappella. Con la classica Mercedes Benz l'omaggio è sì rivolto, come è naturale che sia, a Janis Joplin, ma a ben guardare è pure la perfetta chiusura per una esibizione davvero ben fatta, sempre in crescendo, con le voci delle Scarlett Jane, più squillante e argentina quella della Doire, maggiormente roca e "sporca" quella della Ramolo, per l'occasione all'unisono su un must del rock internazionale. Guadagnato l'accompagnamento del pubblico la serata volge al termine. Restano sorrisi, fotografie, chiacchiere e autografi. E l'impressione estremamente favorevole sulle capacità artistiche delle giovani canadesi. Ottimo lavoro ragazze. Pavia si ricorderà di voi. A questo punto non resta che attendere le prossime mosse.
 
Andrea Barbaglia '12

un link al seguente post è presente qui: http://www.facebook.com/da.trapani

venerdì 2 novembre 2012

LA MORTE
La Morte
- Anemic Dracula/Corpoc - 2012

Non poteva essere altrimenti. "In ogni epoca, da sempre, per chiunque. Arrivo e pareggio i destini, accomunando tutti i nati a un esito identico. Certissimo. Risaputo. Muoiono tutti. Che scoperta. (...) Non oggi, chissà, non domani. Prima o poi. Fìdati. Ne siamo certi. Ma si sapeva e almeno non sarà una sorpresa." Parole semplici. Consapevoli. Nette. Che non lasciano scampo a fraintendimento alcuno. Quiete nella loro serena e al tempo stesso drammatica partecipazione. Dunque, "come hanno reagito a questa scoperta clamorosa altri che furono vivi, in carne ed ossa, come tu lo sei ora? Di certo nessuno ha poi lasciato detto esattamente che cosa in quell'istante accada, né tanto meno dopo. Nessun trapassato ha mai condiviso il suo stato. L'unico passo comune, quando ci sei, te lo tieni per te. Paradossale. Tutto il resto è letteratura. Brutta o bella, passata o futura. Ed è esattamente quel che resta. Tanto vale farla." Firmato La Morte. Quello che in ultima analisi si rivela essere un riuscito progetto letteral-discografico a cura di Riccardo Gamondi e Giovanni Succi, è innanzitutto una selezionata ed analitica riflessione poetico-didascalica volta a mettere in luce la trattazione di un tema tabù, fra gli ultimi (fortunatamente?) "duri a morire" nel mondo occidentale, come quello riguardante appunto la fine della vita. Per farlo il basista degli Uochi Toki domanda al frontman dei Bachi da Pietra una selezione di letture da sonorizzare con la sua elettronica; Succi, non nuovo ad esperienze di questo tipo dopo la straordinaria rilettura addirittura per sola voce e ancora in corso d'opera de IL CONTE DI KEVENHÜLLER di Giorgio Caproni, "delinea l'idea, il tema e il nome del progetto". A primavera l'entrata in studio e la registrazione delle voci sono cosa fatta. È a questo punto che sulle letture interviene Rico, "selezionandole a sua volta in base alla propria ispirazione e componendo su di esse parti da campionamenti e field recording". Unici ospiti ammessi (e registrati nella cappella del cimitero comunale di Saludecio nei pressi di Rimini) un violino e un violoncello, rispettivamente affidati a Teresa Tondolo e Viola Mattioni; a Lucio Corenzi, direttamente dai Luther Blissett, spetta l'accompagnamento con l'immancabile contrabbasso. Attraverso la voce e l'elettronica il progetto propone pagine sparse della letteratura occidentale dal medioevo ad oggi, principalmente in prosa, eccezionalmente in versi, sul tema della morte. Inciso su vinile in sole 300 copie, con serigrafie in cenere ad opera di Veronica Azzinari, l'lp si apre con un estratto da I Promessi Sposi di Alessandro Manzoni rintracciabile nel capitolo XXXIII, quando la peste si rivela in tutta la sua manifesta infettività pure sul malvagio don Rodrigo. Senza soluzione di continuità il Jean-Paul Sartre de Il Muro affronta lucidamente la notte che precede la morte del condannato ai tempi della guerra civile spagnola. Un persistente vento dell'Est soffia invece forte e gelido nel frammento estrapolato da La Morte di Ivan Il'ic di Lev Tolstoj mentre il protagonista analizza lucidamente, ma con rammarico, la malattia che lo sopraffarrà. E non sarà il sommesso recitato sulla ripugnante caducità del corpo umano nella lauda di Jacopone da Todi Quando t'alegri, omo d'altura a ravvivare l'animo dell'ascoltatore. Anzi... Meditiamo per lunghi tratti. Riapriamo gli occhi, solleviamo la puntina e cambiamo lato. Spetta a "uno scrittore che non assomiglia a nessun altro", ebbe a dire di lui Italo Calvino, procedere con una purulenta e nauseabonda descrizione riguardante la decomposizione cadaverica: direttamente Dall'Inferno Giorgio Manganelli è il nostro occhio critico e rigoroso. Quindi tocca allo stesso Calvino con il razionale signor Palomar dare il suo apporto, trasfigurato e sospeso. Ancora un contributo di Jacopone, con la lettura pressoché completa di un magistrale Succi intento a recitare, marziale e cadenzato, la lauda Sì como la morte face a lo corpo umanato. Infine la chiusura, eterea e cimiteriale, affidata a David Foster Wallace e al suo irrisolto Il Re Pallido. Il calendario dice 2 novembre... Omo, mittete a pensare...