mercoledì 28 marzo 2012

VERBAL
Verbal
- Neverlab - 2012

È essenzialmente strumentale il debutto dei Verbal, quintetto bergamasco dedito ad un post rock variegato e articolato come nella migliore tradizione del genere. Sei episodi che non temono l'usura del tempo, variabili per forma e per durata, ma mai nella sostanza. La ripetitività ossessiva e mantrica delle uniche tre parole (Scheiße Meine Kleine) pronunciate distintamente nel platter e individuabili nella contraddittoria Kaspar Hauser delimita un percorso circolare in cui il moto perpetuo degli strumenti quasi prende vita diventando anima e corpo utili per esplorare il poliforme mondo tracciato da Isaia Invernizzi e compagni a suon di potenti pennellate math. Questa cifra stilistica affiora così con prepotenza fra le pieghe progressive di Coronado, contamina la claustrofobia di Double D Marvin, sostiene la percussività di Orwell imbevuta da una serie di interessanti campionature che hanno per protagonista lo stesso George. E si riversa in sede live. Album di suoni e atmosfere per nulla rarefatti VERBAL suona preciso e quadrato, mirando a colpire lo stomaco prima ancora che il cuore, facendosi beffe delle fantomatiche leggi di mercato universale, sempre meno in voga oggi, e rivelando un'attitudine in your face derivata dall'abitudine ormai consolidata di essere stato suonato e registrato in presa diretta. Una sospensione sonora introduce Benny Hill (Hates Sports), tour de force vibrante e dilatato la cui fine è inizio silenzioso per una elettronica Kobayashi dalle suggestioni oriental-acquatiche. Solo a questo punto prendiamo atto di come attraverso le sei tappe della band di Isaia Invernizzi e Gregorio Conti ci siano passati davanti agli occhi altrettante rappresentazioni di personaggi in qualche modo sedimentati nella memoria collettiva; alcuni certamente definiti, altri ancora in cerca di autore. Anche in questo sta la peculiarità dell'opera prima dei Verbal, in uscita martedì 3 aprile: attraverso la composizione e la rifrazione di sentimenti e sensazioni, scomponendo e riplasmando la materia sonora senza soluzione di continuità, il suono va oltre la musica, oltre la realtà. E fluisce inesorabile. È il πάντα ῥεῖ di eraclitea memoria, portato all'esasperazione da un lato e sovvertito dall'altro: se è vero come è vero che non ci si può bagnare due volte nello stesso fiume perché tutto scorre e si modifica, attraverso la misura matematica delle note possiamo calcolare, quantificare, codificare quanto di questo flusso inarrestabile ci investe e rende coprotagonisti, in una ricomposizione del mondo prima del mondo. Ma non si creda che alla base della musica della band lombarda siano state poste necessariamente elucubrazioni filosofiche fini a sé stesse; semplicemente si tratta di trovare una via forse non completamente originale, ma di certo personale, in grado di oltrepassare immagini di vita vissuta (o sognata) e tensioni logoranti su cui poggia l'eterna lotta tra bene e male. Alle radici dell'esistenza. 

domenica 25 marzo 2012


VIDOMÀR
Omar Pedrini
- Panorama - 2004

È il 1996, e i Timoria vengono acclamati da più parti per il buon successo commerciale e di critica del grintoso 2020 SPEEDBALL, in attesa di rientrare in studio per mettere a punto il potentissimo crossover dal respiro internazionale convogliato nel fiero ETA BETA. Omar Pedrini, mente pensante e braccio produttivo della band bresciana, decide di ritagliarsi tra un impegno e l'altro un ulteriore spazio per dare sfogo questa volta a pulsioni soliste sempre votate al rock certo, ma imbevute di jazz e poesia, fulcro e nucleo centrale del pregevole esperimento  musical-letterario andato sotto il nome di BEATNIK - IL RAGAZZO TATUATO DI BIRKINHEAD. Uno sfizio personale e nulla più. Di certo nessuna intenzione di abbandonare la band madre. Sarà piuttosto un contrariato Francesco Renga ("le canzoni dell'ultimo album può cantarle chiunque..." affermerà qualche tempo dopo) a fare le valigie e ad abbandonare la nave dopo il tour in supporto ad ETA BETA lasciando i compagni di mille avventure prima alla ricerca della quadratura del cerchio con 1999; poi a gioire per i trionfi raccolti dall'ottimo EL TOPO GRAND HOTEL. Ancora un ultimo album, che è pure colonna sonora per un film, e la decisione di congelare la band di Senza Vento e Sole Spento per cinque anni. Il 2003 è alle porte. Neanche dodici mesi dopo ed ecco che il nome di Omar Pedrini viene annunciato tra i ventidue partecipanti del 53° Festival di Sanremo. Carriera solista in vista dunque? O altro sfizio in attesa del disgelo? Il posizionamento finale per Lavoro Inutile non è certo dei più lusinghieri (è 15esima), ma in una kermesse ormai più televisiva che canora, capace di confinare al penultimo posto l'ottimo Pacifico, Pedrini brilla di luce propria andando a proporre una toccante ballad rock sul ruolo del musicista, fotografia  tout court tanto impietosa quanto reale della scarsa considerazione ricevuta da coloro i quali si impegnano, si allenano con costanza alla Bellezza, sistematicamente ignorati poi dalla società. Una riflessione che l'uomo Omar rivolge all'artista Pedrini per diffonderla poi all'esterno, urlo pacato, stimolo al ragionamento. Già nei Timoria si trovano momenti simili; qua però anche la musica aiuta a focalizzare la propria attenzione sui contenuti scritti. Una musica che affonda le proprie radici nel rock come di consueto, ma si lascia contaminare in maniera pronunciata da atmosfere jazzate, ritmiche funk e poesia blues grazie anche all'apporto di straordinari musicisti come, tra gli altri, Giorgio Cocilovo alla chitarra, Danilo Rea al pianoforte, Ellade Bandini e Franco Testa alla sezione ritmica. Ho Solo Un'Anima ci mette in guardia il primo brano del cd, eppure, è giusto sottolinearlo, decisamente sfaccettata: mistica in Govinda, riconoscente dei propri trascorsi ribelli (Lieve, Mare Blues, Quelli Come Me), proiettata al futuro (la fascinosa Da Qui). Corrono veloci sulla tastiera del pianoforte le dita di Luca Scarpa nella sognante Quasi Luna, si dà ampio spazio agli strumenti in Anima Blues, ripresa tra free jazz e fusion dell'opener Ho Solo Un'Anima in cui è il sax di Francesco Cafiso a farla da padrone; ci sia abbandona incuriositi all'autobiografico reading beat di Vidomàr. Un album che è amore. Amore per la Vita, per la Parola, per l'Arte. Da condividere con le persone più care, così com'è per sua natura: puro e gratuito. La Parte Migliore Di Me

domenica 18 marzo 2012

LA REPUBBLICA DEL SOLE
Ettore Giuradei
- Mizar Records - 2010

È al terzo lavoro in studio il bresciano Ettore Giuradei. Un cantautorato ben poco scontato il suo, con intuizioni neoclassiche che sono schegge di luce e lampi di visionarie realtà altre nel buio di esistenze personali dal carattere universale. Un artista che brucia, invaso dal fuoco sacro della poesia, cantore delle piccole cose, antico aedo italico dal timbro argentino, capace di tramutare storie comuni, anche di basso rango, in ammalianti racconti dal sapore mitico. E proprio ai grandi classici della letteratura antica sembra (in)cosapevolmente rivolgere lo sguardo nel suo continuo oscillare tra le parole. Ricercate, studiate, musicali. La dea dell'amore che balla ad occhi chiusi in Piedi Alati sintetizza la poetica di una nuova Il Cielo In Una Stanza orgiastica, su ritmi folk rock, picareschi e cantautorali. Eva è tra gli episodi più intensi e ricchi di pathos dell'intera carriera di Ettore, storia di amore e passione sottolineata dall'incessante crescendo jazzato, quasi apocalittico, del pianoforte al quale la bravura del fratello Marco consegna, qui come altrove, il ruolo di strumento principe. Essenziale è infatti il suo ruolo nella composizione della fiabesca malinconia de Il Vicino, nelle delicate trame sonore orchestrate presenti in Paese, amara rivendicazione dell'agire particolare contro l'omologazione immobile della perfezione, e nella bolla sognante de La Repubblica Del Sole, manifesto della poetica bucolica di Giuradei, tra speranza e utopia, in attesa della nuova età dell'oro. La nuova Arcadia vagheggiata da Virgilio e più indietro ancora, nella notte dei tempi, dagli antichi greci. Aleggia tutto questo e molto altro ancora nell'atteso sequel al buon ERA CHE COSÌ, uscito, esattamente come il suo predecessore, per la propria etichetta di produzione. In Strega le chitarre acustiche fanno da contraltare all'imperante pianoforte, modellante armonie e ricami, le stesse che scompaiono di fronte alla salutare tavola desertica imbandita dalla sferzante 4 Matrimoni, poetica soggettiva dalle tinte forti, preludio forse ad una futura strada sonora di cui sarà progenitrice. La quiete è solamente formale quando il cantautore si fa a suo modo politico in Sensazioni; un attimo di respiro prima di pagare il debito nei confronti di un Paolo Conte lanciato a tutto gas nelle pieghe, nelle corse, nelle accellerazioni vaudeville di Sbatton Le Finestre con cui Giuradei costruisce, assembla e consegna all'ascoltatore un fastoso gioiellino di raffinata carica rock. Si chiude con il divertissement di Macchinina Cocaina, breve valzerino in cui trovano spazio una manciata di fiati per nulla invasivi, ma capaci di dar ulteriore colore e calore ad un album davvero notevole per fluidità e capacità di farsi ascoltare con costanza anche a distanza di tempo. Il disco della consacrazione, dunque? Attenderei le prossime mosse dei fratelli Giuradei per gridarlo (con misura) al mondo. Del resto est modus in rebus.

sabato 17 marzo 2012

ODIO I VIVI

ODIO I VIVI
Edda
- Niegazowana - 2012

Eccolo qua il seguito dell'incensatissimo esordio solista SEMPER BIOT. Anche questa volta Edda, al secolo Stefano Rampoldi, rilascia in compagnia di Walter Somà un'opera, al netto delle spese, estremamente complessa, elaborata e sofferta. Figlio di un percorso personale unico ODIO I VIVI è la naturale prosecuzione del precedente lavoro discografico seppure maggiormente caotico nella sua ricchezza di colori e sfumature edificate, mattone dopo mattone, nota dopo nota, in compagnia del fido Taketo Gohara, alla seconda prova in studio con l'ex Ritmo Tribale. Se con il ritorno di tre anni fa dopo gli anni bui della droga e quelli difficili del reinserimento nella società il risultato fu una contemplazione interiore gridata all'esterno attraverso il racconto autobiografico nudo e crudo, privo di particolari orpelli anche nelle trame sonore, oggi è la donna ad assurgere al ruolo di musa unica per procedere nel racconto. Forse solo due artisti apparentemente lontani dal musicista milanese come Antonello Venditti e Ivan Graziani hanno nel proprio repertorio una carrellata più nutrita di figure femminili. Edda è da oggi sul podio con loro. Emma, Anna, Marika, Tania si incarnano infatti, concrete e impalpabili nello stesso tempo, in altrettante canzoni omonime, fortemente autobiografiche e fantasiose, sorrette da una nervosa chitarra elettrica come mai prima d'ora, arricchite spesso da un ensemble orchestrale a cura del già noto Quartetto EdoDea, non nuovo nel passato recente a commistioni ben riuscite tanto con la canzone d'autore (Pacifico) quanto con il rock (Enrico Ruggeri, Baustelle), e in collaborazione con ottoni e ance vari appannaggio di Achille Succi e Mauro Ottolini. "Un insieme di parti differenti che insieme girano alla perfezione" avrà a dire Edda a riguardo: una scelta operata inizialmente non senza perplessità, ma in grado di fornire inattesi percorsi alternativi davvero sorprendenti. Che ardono. Impetuosi come il fuoco sacro all'origine della vita. Se la dimensione atemporale di Omino Nero sfocia ben presto in una esuberante carica rock, in Topazio ci si muove nudi tra camere da letto e campi ligresti, in una alternanza instabile di grinta e pazzia. A tratti inafferrabile, il senso dell'opera è da ricercarsi nelle pieghe dei testi, nei cambi di tempo a cui la claustrofobica melodia, quando c'è, si piega; è negli anfratti della mente, nei lampi di disarmante candore scagliati in quell'oscuro baratro esistenziale che mendica attenzione (Emma) e su cui si affaccia la premiata ditta Rampoldi-Somà, autrice di otto brani sugli undici complessivi. La violenta denuncia del male di vivere esplode multiforme nel sesso sgangherato di Anna mentre verità naturalmente scomode vengono a galla nel finto conforto materno de Il Seno. Contribuisce alla scrittura della soffusa Gionata anche il compagno di scuderia Mirai che non prende però parte alle registrazioni, regalando un piccolo episodio di cristallina purezza da sgrezzare e plasmare pochi istanti prima della malata serenità cantata in Marika. E se Qui con la sua leggera veste progressive intessuta dal flauto di Gavino Murgia pare stagliarsi lapidaria su un futuro tutt'altro che roseo per la condizione umana, ecco, ora che la fine è vicina, la speranza di Tania. Introdotta sommessamente dalla citazione della storica My Way, è un piccolo mantra quello che si sviluppa negli istanti successivi, tra misticismo e carnalità, in un crescendo pastorale che profuma quasi di redenzione, sottolineato dai fiati di Ottolini, dopo la discesa negli inferi. Un sogno, che come tale corre sempre il rischio di tramutarsi in incubo. Un disperato bisogno di amare ed essere amati che consuma e brucia dentro. Fino alla prossima vita.

giovedì 15 marzo 2012

YOU ARE THE REASON FOR MY TROUBLES
The Mojomatics
- Outside Inside Records & Wild Honey Records - 2012

Disco traballante e traboccante energia fin dalle prime battute, il quarto lavoro dei The Mojomatics poggia le fondamenta su quel rock'n'roll solare e spensierato che, con un occhio ben fisso sulla grande tradizione inglese sbocciata ai tempi della Swinging London, va tuttavia a pescare a piene mani tanto dal miglior Gram Parsons (You Don't Give A Shit About Me) quanto dal Tom Petty più ispirato (la title track You Are The Reason For My Troubles, la robusta Long And Lonesome Day) senza dimenticare di concedersi incursioni nella mai troppo celebrata carriera solista dell'ex Guns n' Roses Izzy Stradlin', musicista a sua volta con un debito enorme verso gli inarrivabili Rolling Stones; quello stesso debito condonato alle folte schiere di ammiratori dallo stesso Keith Richards in ormai cinquant'anni di carriera che il duo veneto sbandiera e ben sintetizza nella riuscita opener Behind The Trees, perfetta introduzione scelta per indicare la via percorsa qui. Un disco che è una scheggia di melodia garage, da ascoltare lungo le strade di Piccadilly "tuttodunfiato" talmente scorre fluido lungo i territori del folk e del blues, perfetta colonna sonora dall'altra parte dell'oceano per un coast to coast lungo la Route 66, in compagnia dei Flying Burrito Brothers e dei Crazy Horse di Neil young (l'ottima harvestiana Her Name), a loro volta affiancati da quell'easy rider rivoluzionario di nome Jonny Kaplan, qualche istante prima di incrociare il Bob Dylan elettrico proveniente dall'Highway 61 e i Byrds, direttamente dalla loro 5th Dimension. Di una freschezza sempre più rara da trovare, Matteo Bordin e Davide Zolli hanno lavorato per più di tre anni a questo album. La maggior parte del tempo e degli sforzi è stata concentrata nello scartare canzoni che appesantissero o, peggio ancora, annacquassero l'essenza agrodolce del disco. Il risultato finale è così più una raccolta di singoli che un album vero e proprio, esattamente come era prassi mettere in commercio sul finire degli anni '60 quando a funzionare erano i 45 giri prima ancora che i long playing. Certo, seppure con altra finalità, lo cantano pure i due 'matics: Yesterday Is Dead And Gone. Ma se in quest'epoca di musica liquida ormai troppo spesso conta più il singolo mp3 di un intero cd, la scelta di lavorare ad un vinile prima per sottrazione e in un secondo momento per raccolta pare comunque confezionata su misura per i tempi correnti. Certo, la tremolante Rain Is Digging My Grave, il protopunk'n'roll di In The Meanwhile o il flower pop scanzonato dell'R&B Don't Talk To Me non sono ancora consumate hits, ma siamo certi che tanto un certo Brian Jones così come pure un giovanissimo Paul Samwell-Smith avrebbero drizzato le orecchie a fronte di un ascolto anche superficiale e non si sarebbero lasciati scappare una esibizione dal vivo dei giovani italiani, se mai fossero capitati nei paraggi, per approfondire e trarre magari qualche spunto per le loro rispettive band. Fossero davvero Bordin e Zolli il motivo dei nostri problemi avremmo tutti molte meno grane nella vita. 

lunedì 12 marzo 2012

CONQUISTE
Cosmetic
-  La Tempesta - 2012

Sorprendente!? La crescita dei Cosmetic c'è stata una volta ancora e il risultato è ben sintetizzato fin dal programmatico titolo del nuovo album CONQUISTE, secondo lavoro del quartetto romagnolo per La Tempesta e quarto in assoluto dopo la piccola parentesi per ingannare il tempo del 10" IN OGNI MOMENTO. Conquiste dicevamo; conquiste che allargano in maniera decisa i confini della propria musica, non più confinata nello shoegaze di pregevole fattura alla base del già ottimo NON SIAMO DI QUI, ma che spazia con maggiore sicurezza e dinamismo nel rock lisergico e nelle virate di alternative rock anni '90 tanto in voga in quegli anni negli Stati Uniti. Suoni grassi e corposi. Qualcuno potrebbe parlare di grunge. L'ascolto della mastodontica Colonne D'Errore non lo smentirebbe affatto: Hüsker Dü e Motorpsycho che lottano fra loro con i Nirvana terzo incomodo a decidere le sorti della contesa e i primissimi Verdena seduti in un angolo a contemplare la scena. Dove potremmo avere la buona sorte di vivere un'istantanea del genere? Forse proprio tra le strette viuzze del borgo che compare sulla copertina del cd, nuova opera di Elzevira Pagliuca, e sulle quali incombe la figura, se non minacciosa quantomeno inquietante, di una astronave aliena pilotata, di questo siamo certi, da Bart, Pain, Emily e Mone. Non sono di qui, ricordate? Così spetta a loro sbarcare nuovamente sul suolo terrestre verso La Fine Del Giorno (tra i momenti riconducibili al loro passato più prossimo) in questo inizio di primavera e avviarsi verso La Lenta Conquista di cui sopra, spingendo sul tasto della credibilità acquisita e maturata in sede live dopo oltre quindici anni di carriera e inscatolata, forse davvero per la prima volta, pure in studio grazie al lavoro di Paolo Rossi in cabina di regia presso il Waves di Pesaro. All'irruenza punk di Scisma, cui fa seguito la nota Prima O Poi, già presente sull'ep del 2011, spetta il compito di promozionare il tutto presso radio, siti e webzines. Melly e Sitar tengono desta l'attenzione con il loro vorticoso impasto sonoro fatto di dream pop, elettrica sonicità e roboante groove; l'acustica Calla rallenta i ritmi, delicata ballad sonica capace di cullare l'ascoltatore con garbo e discrezionalità. Per Un Amico cresce lentamente, sulla distanza, allorquando le sei corde prendono il sopravvento per innalzare un muro sonoro degno dei migliori A Place To Bury Strangers. In questa esplosiva miscela chitarristica trova spazio anche uno strumentale: Andreini è un sognante frammento onirico, goccia atmosferica nell'incendiario mare sonoro che di lì a poco prenderà corpo tra le ormai famose colonne d'errore. Quattro minuti ancora poi tutto finirà. I saluti conclusivi spettano a Lo Spavento. E mentre l'astronave decolla, con grande stupore tutti alzano la testa e levano lo sguardo al cielo. Dopo anni di shoegaze la conquista della posizione eretta è completata, l'evoluzione in atto.

sabato 10 marzo 2012

L'ORIZZONTE DEGLI EVENTI

L'ORIZZONTE DEGLI EVENTI
Danilo Sacco
- autoproduzione - 2011

"Pensieri a voce alta". Così Danilo Sacco definisce nella prefazione scritta di suo pugno questa raccolta di "parole, pensieri e musica senza alcuna pretesa", la prima uscita (letteral)discografica al di fuori dell'impegno con i Nomadi, la band in cui entrò in punta di piedi a fianco del lungocrinito polistrumentista Francesco Gualerzi nel lontano 1993, scelto da Beppe Carletti su suggerimento di Cico Falzone per sostituire l'insostituibile, l'indimenticato Augusto Daolio scomparso solo pochi mesi prima. "Trovano posto in questo libretto canzoni che ho avuto il piacere di interpretare per sostenere varie e importanti iniziative e canzoni invece del tutto mie, intime e molto personali, scritte e cantate in momenti del mio cammino non sempre bello né sereno." Solo sette i brani proposti, a coprire un arco temporale di almeno tredici, quattordici anni nei quali viene svelato spesso un Danilo Sacco realmente a nudo, nelle parole e nei sentimenti espressi. C'è l'ampio respiro dei ritmi etno pop di Jere Jef, il tradizionale ringraziamento senegalese in lingua wolof qui utilizzato per ricordare Fabrizio Meoni, campione di motociclismo, vittima di una caduta durante la Parigi-Dakar del 2005, e per sostenere la sua fondazione che da allora opera in Africa. C'è la solidarietà che prende vita in altre forme sonore, ma con finalità non meno importanti legate in questa occasione all'associazione Soleterre i cui fondi sono impiegati per implementare il Programma Internazionale per l'Oncologia Pediatrica in Ucraina e in altri cinque Paesi in via di sviluppo, in Africa, Asia e America Latina; la toccante ballad Figli Di Chernobyl, duetto con Daniele Ronda & Folklub, è un pensiero dai colori pastello in favore delle mamme e dei bambini malati di cancro di Kiev, scelto per testimoniare il proprio impegno e la propria adesione al progetto perché ""cancro" e "bambini" sono due termini che stridono all'interno della stessa frase". C'è la voce prestata a Papa'rticolare, lettera aperta di un padre rivolta alla propria figlia, scritta ed interpretata in compagnia di Mikele Soave, allora bassista dei The Slim Simon's Terrible Friends, oggi alla ricerca di una dimensione cantautorale più intima e piena. E c'è l'omaggio a due giganti della Musica come Fabrizio De André e Massimo Bubola nella fedele riproposizione acustica della loro Fiume Sand Creek (qui ribattezzata con incisività Sand Creek). Eppure il Danilo Sacco più intimo, sincero e fragile, inerme di fronte al mistero dell' esistenza umana affiora con prepotente evidenza e necessità nelle restanti tre composizioni. Provini in realtà, all'atto della registrazione senza finalità di pubblicazione, fotografie di momenti ben precisi nella vita dell'artista astigiano, solo con i suoi pensieri e le sue cogitazioni fissate su nastro. Per ricordare un amico come Angelo Romano e meditare sul moto perpetuo dei cicli vitali le intenzioni trovano compiuta realizzazione nelle promesse cariche di speranza della sofferta Credimi. La notturna In Dubbio spalanca una finestra sul Creato pacificando le anime in pena mentre la risacca marina le culla alla luce della luna. Ascoltami è infine il tesoro nascosto di tutto il lavoro: i Black Sabbath di Changes che incontrano un fumoso Tom Waits per disquisire in merito ai sistemi filosofici dell'universo. Jazzata, "stonata", ma soprattutto viva. Accanto sono massime e riflessioni. Pensieri che rincorrono musiche e suoni che inseguono parole.

un link al seguente post è presente qui: http://www.facebook.com/pages/Danilo-Sacco/166276663397623 

venerdì 9 marzo 2012

08-03-2012
- GINEVRA DI MARCO live @ SpazioMusica -
Pavia (PV)

A cavallo tra l'adrenalinico live dei Litfiba di due giorni prima e quello altrettanto energico, ma ancora a venire, di Giorgio Canali coi suoi Rossofuoco, ci ritagliamo per la data dell'8 marzo una serata intima e accogliente. Arriva infatti Ginevra Di Marco, dotatissima vocalist toscana che, partita da quella irripetibile, unica e imprescindibile esperienza targata C.S.I., ha sviluppato negli ultimi anni un interesse sempre più radicato per generi "alternativi" a quanto proposto dalla band madre, affondando le radici del nuovo percorso nella canzone d'autore e in quella popolare. Sono passati ben cinque anni dall'ultima occasione in cui le Stazioni Lunari dell'interprete fiorentina presero terra in quel di Arona, cittadina turistica con sguardo piemontese sul lago Maggiore; durante una piovosa serata di metà giugno, all'interno della
Fiera dei libri da viaggio, Ginevra incantò tutti con un live trascinante per intensità e contenuti. La certezza perché anche a Pavia la scena si possa ripetere è pari all'attenzione rivolta alle novità in scaletta. Dunque alta. Accompagnata oggi come allora dal geniale Francesco Magnelli e dal più schivo Andrea Salvadori, la Di Marco sceglie di iniziare lo spettacolo con un omaggio ai propri trascorsi optando per una raccolta Intimisto che cattura all'istante il numeroso pubblico accorso. Saranno molti i tributi rivolti questa sera a musicisti e interpreti qualitativamente superiori. Primo fra tutti La Sposa in cui la sempre poco celebrata Giuni Russo rivive per qualche istante circondata dal religioso silenzio che ben caratterizza questa prima parte di concerto. Con le sofferte Storia Del 107 e Sidun, la prima canzone popolare toscana, la seconda ça va sans dire tratta dal repertorio di De André, la tensione e la commozione per le vicende narrate sono palpabili nell'aria.

Con le sue vibranti note orientaleggianti sale in cattedra lo tzouras di Salvadori a enfatizzare la drammaticità per la fine di Sidone. Cosa resta sotto le macerie e i roghi della guerra?
Brace. Brace rovente. Fuoco sotto cenere, pericoloso e vivo, intento a divincolarsi, a cercare una combustione che è gioco antico, utile per divampare alto e intenso a squarciare il velo della cecità. Altro episodio tratto dall'ultimo lavoro in studio, quel CANTI E RICHIAMI D'AMORE che, a detta della stessa Di Marco, "concentra il fuoco sull'uomo, sulla sua vita, sulla sua necessità di cercare di superare il proprio limite senza [comunque] riuscirci mai in maniera definitiva", è Tumbalalaika, canto ebraico in lingua yiddish su musica tradizionale russa. Prendimi l'anima canta Ginevra a significare come nel disco venga concentrata davvero "una manciata di canzoni che raccontano proprio la vita e questa continua ricerca dell'uomo, tra il Limite e l'Infinito", tra "dolori, cadute e rinascite". Di tutto questo incessante percorso, componente molto spesso rilevante è un misticismo che apre le porte ad una meditazione profonda e rivelatrice; L'Ombra Della Luce, tra le pagine più intense di Franco Battiato, giunge a pacificare (semmai ce ne fosse bisogno) uno stato d'animo generale sempre più raccolto e assorto che ha contagiato gli astanti. All'epifania di Nuena Nuena spetta il compito di aprire una nuova fase della serata.

Sempre contenuta nell'ultimo cd di cui sopra, la canzone scritta da Enzo Avitabile diventa occasione per un coinvolgimento del pubblico che col passare dei minuti si farà sempre più crescente. Ginevra cambia registro di voce e si fa strumento fra strumenti; l'incanto si compie e si rinnova con
Ederlezi, tradizionale balcanico già ascoltato dalla sua voce fin dai tempi degli ultimi C.S.I. prima della loro naturale benché sofferta trasformazione in PGR. E se con questo brano, reso famoso da Goran Bregović, del Consorzio  vengono alla mente gli sviluppi successivi l'abbandono di Massimo Zamboni, un tuffo nel loro passato fedele alla linea avviene con Amandoti, sedicente cover dei CCCP proiettati nell'ultima decade dello scorso millennio che funge altresì da dedica questa sera alla piccola Alice, terzogenita della coppia Di Marco-Magnelli, a otto mesi dalla sua nascita. Per quanto la ripresa di qualche tempo fa ad opera di Gianna Nannini abbia dato maggior visibilità a questo lavoro di Ferretti e compagnia musicante contenuto in origine nel monumentale EPICA, ETICA, ETNICA, PATHOS, Ginevra regala una performance ben più calda di quella offerta in studio dall'artista senese, capace di ravvivare il pubblico ora anche più sciolto rispetto agli istanti iniziali. Il Canto Del Filangieri, canzone di malavita della tradizione orale, recupera nella rielaborazione del De Simone la strafottenza e l'arroganza tipica del picciotto protagonista del brano che, mariuolo impunito, si fa spallucce della legalità. Gli fa seguito Fel Shara, componimento "scritto da tutti quei popoli che si affacciano sul Mediterraneo. È un testo di amore molto semplice, composto da parole greche, turche, italiane, spagnole, francesi, slave"; una sorta di esperanto fra diverse culture musicali riunite sotto l'egida della Musica.

Gran lavoro all'acustica per Salvadori nella successiva
Les Tziganes, tributo a Leo Ferré e alla sua lotta contro il razzismo che emerge prepotente e poetica nelle parole veloci, rapide, concitate, che si inseguono frenetiche lungo il percorso tracciato dalle altrettanto indiavolate note suonate. Con Le Figliole, tradizionale campano che fa bella mostra di sé anche su DONNA GINEVRA, il coinvolgimento del pubblico si fa sempre più intenso e divertito, con una risposta davvero convinta e naturale che sorprende lo stesso trio sul palco. Ad Agata Salvadori, giovane erede di Andrea, viene dedicata una magistrale Gracias A La Vida, intensa interpretazione del classico di Violeta Parra, cantautrice e poetessa cilena morta suicida pochi mesi dopo la composizione di questo struggente e appassionato insieme inno alla vita, lei stessa cardine di quel movimento culturale che va sotto il nome di Nueva Canción Chilena e che continua ad avere per protagonisti gli storici Inti Illimani e l'indimenticabile Víctor Jara. La presentazione della band ci segnala come il tempo sia tiranno e corra veloce verso la fine della serata. Il palco dello SpazioMusica da sempre non consente "fughe" in camerino ai musicisti prima dei rituali bis per cui, dopo un rapido consulto direttamente col pubblico, Ginevra, Francesco e Andrea si preparano per gli ultimi fuochi. Il repertorio della canzone popolare è talmente vasto che in qualche modo si premiano le richieste giunte dagli spettatori.

Si parte sostenuti con un altro canto tradizionale, uno dei primi canti del proletariato moderno non ancora costituito in gruppi organizzati, e conosciuto come
La Leggera, in ricordo di quel treno fatto di disoccupati e stagionali che nel secolo scorso con un misero bagaglio, leggero appunto, venivano condotti in Maremma per lavorare duramente nei campi. A ruota ecco l'altrettanto sarcastica Il Crack Delle Banche, sempre attuale nonostante i centosedici anni di storia alle spalle, e la celebre ninna nanna La Malcontenta. Luce sul pubblico e la parola a Magnelli: "...facciamo ancora due 'anzoni insieme. Siete pronti? Siete capaci di fare 'ste 'anzoni in piedi, con noi?" "Partiamo con un coro lento e poi si parte con la 'anzone, eh?! Queste son le ultime due, diamo un'ultima stilla al sudore!" Coadiuvata dalle voci dei circa centocinquanta presenti, Monna Ginevra si lancia nell'atteso bis di Malarazza, dettando i tempi e acconsentendo poi al suggerimento di farne ancora una; "una, una vergognosa, però...", incita il buon Magnelli. Così, spetta alla goliardica Il Grillo E La Formica chiudere le danze dopo novanta minuti abbondanti di spettacolo in cui l'alternanza tra il nuovo cd, venduto in buona quantità dal fido Sergio Delle Cese in coda all'esibizione, e un repertorio consolidato, ma più aperto all'iterazione con il pubblico, come abbiamo avuto modo di verificare di persona a partire da metà live, garantisce una sicura resa tanto qualitativa quanto di partecipazione. Soddisfatto e anche un poco sorpreso dall'ottima risposta dei presenti, al trio di musicisti non resta che accomiatarsi così come comparso in scena; in punta di piedi, ma tra gli applausi scroscianti di tutti. Le Stazioni Lunari hanno preso terra a Pavia, in quel nord Italia che non ti aspetti. 

Andrea Barbaglia '12

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domenica 4 marzo 2012

MAD, BAD, DEAD

MAD, BAD, DEAD
Bungalow 62
- autoproduzione - 2012

Il percorso musicale di Paolo Forlì è quantomeno insolito. Vagamundo di professione, con un vissuto sempre in continuo movimento tra gli Stati Uniti e l'Irlanda, tra la Francia e la Thailandia, approda nel 2010 alla realizzazione di un lodevole debut album in collaborazione con Mattia Coletti, noto sperimentatore sonoro già al fianco di collettivi alternativi come Polvere, End Of Summer e il Damo Suzuki's Network. Con questo secondo album una volta ancora autoprodotto il nostro Bungalow 62 continua a ritagliarsi un proprio piccolo, ma importante spazio all'interno di quell'isola felice che pare essere il cantautorato autosufficiente scelto anche da altri giganti invisibili come Tiziano Sgarbi alias di Bob Corn. È una musica che viaggia in bassa frequenza, rilassata e carezzevole come la brezza primaverile che ci soffia tra i capelli durante un lezioso pomeriggio trascorso indolentemente all'ombra di una quercia.  È musica che scorre sottopelle. Nel meriggiare pallido e assorto, presso un rovente muro d'orto. Sì, Eugenio Montale sarebbe probabilmente sorpreso nel ritrovare in MAD, BAD, DEAD una sonorizzazione per le sue poesie. E proprio come ossi di seppia gli otto episodi che lo compongono non hanno la tracotante pretesa di raggiungere chissà quale altra e alta dimensione, di elevare a rango di divinità il suo autore, ma rivolgono il loro sguardo al quotidiano, a volte misero, spesso buffo, costantemente sorprendente. Sempre con voce sussurrata, Paolo Forlì regala all'ascoltatore piccoli riquadri di lacerante bellezza formale, nonostante la registrazione casalinga che tuttavia nulla deve invidiare rispetto a ben più celebrate produzioni internazionali. Un merito ulteriore da ascriversi al lavoro di Bungalow 62, dunque. Centellinate pennate e misurati arpeggi di chitarra acustica tracciano solchi profondi di onirica suggestione. In casi simili i titoli hanno solo una funzione puramente nominale; il flusso perpetuo della musica alimentato da note e parole rivela una propensione ad un'opera unitaria che si sviluppa in un continuum volutamente istintivo, quasi irrazionale. Le atmosfere folk sparse in questa breve mezz'ora di poesia cristallina colorano il muto colloquio fra l'uomo e le cose, momento di sospensione magico e alienante in cui il quotidiano sembra essersi volutamente arrestato per fare spazio ad una analisi minuziosa dei suoi particolari. Dal taglio internazionale, la seconda opera di Forlì si merita giustamente l'attenzione degli addetti ai lavori a cui spetterebbe in casi come questo di vincere la sfida atta a premiare presso un pubblico più ampio e sicuramente attento gli sforzi e le visioni dell'antico compagno di giochi di Mr.Massimo Volume Mimì Clementi. Da San Benedetto del Tronto uno sguardo altrove. Per muovere oltre quella muraglia che ha in cima cocci aguzzi di bottiglia.

venerdì 2 marzo 2012

ALLE ORE BLU
Gea
- Santeria - 2012

Tra le molte uscite su vinile che si sono fatte valere in questi anni digitalizzati merita sicura attenzione il quinto album di una band a suo modo ormai storica dell'underground italiano e che sta per tornare sul mercato discografico con una prova decisamente matura e completa, a tre anni di silenzio dal precedente FROM GEA WITH LOVE. Per nulla Demodé, a differenza di quanto vorrebbe far intendere con l'ipnotico brano omonimo, la band di Stefano Locatelli e Benito Brezzolari, in organico fin dagli esordi post Bug, affronta la nuova fatica discografica attraversando con padronanza di mezzi le sperimentazioni sonore innestate su un alternative stoner spesso convincente dopo qualche passo falso compiuto nel passato anche recente. La vibrante As It Is è fra i momenti migliori, trasudando i Motorpsycho più sporchi e una obliqua inquietudine grunge poi sfogata nel cantato meditabondo che, rabbioso, si lega indossolubilmente ai migliori Fluxus. Un basso mangiatutto pronto a contorcersi, arrovellarsi e macinar chilometri, spiana la strada attraverso il moto perpetuo di Raul Rota Nodari alla galattica Mid Air Dance, cadenzato e suadente sguardo sabbathiano sottolineato dalle luciferine tastiere di Alessandro Ravasio. Nonostante le azzeccate commistioni elettroniche sempre appannaggio dell'ex bassista dei Lana, con Single Malt Nightmare si fa leva in ultima analisi sugli amati Soundgarden di Jesus Christ Pose, omaggio di stima e affetto chitarristico incondizionato per una delle band più influenti e seminali che il rock abbia mai avuto. Pregevole il cantato recitativo atto a rievocare (forse senza premeditazione) le sfumature più aggressive di un certo Jim Morrison come lo abbiamo ascoltato nei momenti clou di L.A.WOMAN e ancora meglio del MORRISON HOTEL. Scheggia post punk dalle influenze 80's, la Potato Republic cantata nella grintosa opener non sfigura di fronte alle trame strumentali di altri momenti coinvolgenti come Mirame e Peep Hot, per i quali si attende la verifica on stage a volumi ugualmente massicci e corposi. Ancora una intro che pare pennellata da un Matt Cameron in stato di grazia è quanto ascoltiamo nell'oscura Lupi Streghe Vino Pietra, incorporeo e tetro ritratto di un sabba moderno. Distorsioni per Besgatobe, tra i corregionali Verdena e le soluzioni ritmiche che vanno per la maggiore oltremanica. Interessante notare come in cabina di regia ci sia il tocco decisivo di Fabio Magistrali, maestro da sempre nel saper mettere a fuoco le peculiarità dei musicisti con cui lavora e che pure in questa occasione sembra aver trovato la quadratura del cerchio. Resta una sola curiosità: capire cosa e quali siano, semmai esistano, queste fantomatiche "ore blu". Ci vengono in soccorso gli stessi musicisti spiegandoci di come a loro corrisponda quel momento del giorno a cavallo tra il crepuscolo e la notte, dove la luce, prima di andarsene, sprigiona l'ultimo sussulto di energia con un colpo di coda di cromatico sfavillio. Un momento quasi onirico dunque, sensuale, ben esemplificato dalla conturbante copertina utilizzata per raffigurare il contenuto del vinile. Un vinile come tradizione vuole, certo, ma al passo coi tempi; l'inclusione di una card per il download gratuito del disco da www.dropcards.com assicura anche al patito di mp3 la possibilità di farsi accompagnare dai Gea in qualunque istante della giornata. Sempre in movimento, di nuovo in viaggio. Come del resto li abbiamo sempre conosciuti.

giovedì 1 marzo 2012

LONTANO DAL CERCHIO

LONTANO DAL CERCHIO
Manoloca & Massimo Vecchi
- Segnali Caotici - 2011

Manoloca è grinta. Manoloca è tenacia. Manoloca è genuinità. Tre caratteristiche che balzano immediatamente all'orecchio dell'ascoltatore anche meno preparato dopo aver prestato attenzione ai dieci episodi raccolti in questo rockeggiante debut album della band lombardo-emiliana. A far gli onori di casa è senza dubbio il volto noto del gruppo, quel Massimo Vecchi da quattordici anni al servizio della causa Nomadi che qui, smessi i panni di bassista, si concentra sul ruolo di cantante, mansione peraltro già ricoperta nella band di Novellara con buoni risultati quando si tratta di eseguire alcuni tra gli episodi più tirati del repertorio, da L'Ordine Dall'Alto a Marinaio Di Vent'anni, passando per Jenny e Status Symbol. A farne le veci al basso ci pensa il buon Daniele Radice che, affiancato da Franz Piatto alla batteria va a costituire il duo di faticatori del ritmo. E se ad Agostino Barbieri spetta il piacevole compito di svariare tra le innumerevoli trame sonore che le tastiere gli consentono (il finale di Al Bivio Sbagliato), è la Les Paul di Dave Colombo, già leader dei Rosso Channel ed insegnante di chitarra moderna presso la NuovaBustoMusica, la punta di diamante del combo, sempre a suo agio nel passare con disinvoltura dall'hard rock anni '70 (Il Prestigiatore) ai ritmi balcanici in levare (il conclusivo inno alla libertà de Il Ponte, tra le migliori dell'intero lavoro) e ritorno. Le danze si aprono con Porgi L'Altra Guancia, arioso pop rock dalle neanche troppo velate connotazioni sociali in cui utopia e desiderio di cambiamento viaggiano a braccetto; coordinate queste ravvisabili pure nel primo singolo consegnato alle radio, la spigolosa Il Tuo Ritratto che garantisce buona visibilità all'assolo di Colombo nel finale. Toni più soffusi e ritmi sudamericani sembrano indirizzare le sorti di Regina In Polvere, ma il risveglio dallo stordimento sintetico-anfetaminico ha, nel refrain, le asperità del rock duro e la valenza di una opportuna doccia fredda, energica e ritemprante. A briglia sciolta con la denuncia di Hanno Picchiato Damiano (Sul Portone Di Casa) e Un Leggero Senso Di Insoddisfazione, quest'ultima quasi un involontario tributo ai disciolti Quartiere Latino di Paolo Martella. Piace il contrasto tra la tempra concettuale e la leggerezza pop che contraddistingue tanto Non Mi Servi Più quanto Sotto Lo Stesso Cielo. Certo, il lavoro a ben guardare non è scevro da qualche pecca formale e alcune ingenuità ancora affiorano, specialmente nei testi, sempre di denuncia, ma che qua e là necessiterebbero probabilmente di un supervisore con quel quid in grado di metterli in bella copia, garantendo attraverso un maggior labor limae una qualità poetica maggiormente incisiva. Allora perché scegliere i Manoloca tra le tante proposte che escono sul mercato? Per la dedizione al lavoro e per il vibe positivo che si respira sia in studio sia nei live? Non solo. Qui c'è materiale su cui meditare e che merita di essere approfondito. Argomenti scomodi, conosciuti, ma dimenticati da ben più blasonati menestrelli musicali intenti troppo spesso a ripiegare su sé stessi con tutto il mondo fuori. Per chi crede che a volte la parola "cuore" faccia ancora rima con "calore". Umano e professionale. Mastro Beppe Carletti docet.