lunedì 30 giugno 2014

ROOTS & WINGS

ROOTS & WINGS
Stef Burns League
- UltraTempo Records - 2014

L'ha preparata bene. L'ha preparata come è spesso consuetudine negli Stati Uniti, con un mini tour di presentazione, anzi addirittura anticipatorio, per testare dal vivo le nuove canzoni che sarebbero successivamente confluite nel suo nuovo album. Stef Burns ha deciso di giocare sul fattore sorpresa con quella prima manciata di concerti tenuti a cavallo fra la fine di aprile e gli inizi di maggio dello scorso anno. Un blitz in piena regola in alcuni piccoli locali del nostro Paese supportato dagli storici collaboratori Juan Van Emmerloot e Fabio Valdemarin e in collaborazione con la new entry Roberto Tiranti al basso e seconda voce. Una importante tappa di avvicinamento all'uscita di ROOTS & WINGS per ingannare l'attesa e apportare con la sua League di fiducia eventuali piccole migliorie ai brani in lavorazione. Quello che abbiamo fra le mani è dunque il risultato di un lavoro meticoloso in cui nulla è lasciato al caso pur non perdendo un solo grammo di tutta quella freschezza e spontaneità che si richiede ad un album di puro rock. Sì, perché il terzo album solista di Burns è il suo primo a spingere davvero sull'accelleratore, aprendo il gas senza paura quando necessario e inanellando una serie di canzoni muscolari e potenti. Più omogeneo da questo punto di vista rispetto al precedente WORLD, UNIVERSE, INFINITY il nuovo cd possiede un appeal tutto americano come dimostra l'atmosfera da grandi spazi aperti, ma anche un po' working class hero a metà strada tra Jon Bon Jovi e Bruce Springsteen, di Miracle Days senza mai rinunciare a quel gusto per la melodia che crediamo esser stata ampiamente sviluppata dall'ex chitarrista di Alice Cooper nel corso degli anni passati accanto a Vasco Rossi e al suo team di lavoro. Il rilassato e contemplativo fraseggio di Home Again, ad esempio, è la prova provata di quanto detto come del resto rivelano anche la struttura tutta della dell'energetica opener - nonché primo singolo - What Doesn't Kill Us e le armonizzazioni vocali della collaudata Something Beautiful. Protagonista assoluta, seppure mai narcisa o troppo compiaciuta di sé, è evidentemente la Stratocaster di Burns che in questa continua compenetrazione tra grinta ed emotività mette allo scoperto un'anima passionale e pura, riflesso dei due mondi in cui l'uomo che la suona si specchia costantemente, respirando il profumo della madre patria USA (le radici) e lasciandosi cullare dal caldo abbraccio dell'Italia, insospettabile terra adottiva in cui sarebbe pure sbocciato l'Amore (le ali). Tastiere orchestrate à-la Mike Moran dall'amico Alberto Rocchetti nella strumentale - unico esempio in tal senso insieme all'ottima Us, sviluppata come rock blues e chiusa in chiave prog - Sky Angel, titolare di un suono chitarristico dilatato che qui accomuna Stef Burns al miglior Brian May e all'altro asso della sei corde Jeff Beck. E se nell'oscura title track sembra di ascoltare la voce di Bruce Kulick ai tempi del controverso CARNIVAL OF SOULS e del consigliatissimo BK3 - con una chitarra che si inchina di fronte al ricordo del Jimmy Page prima maniera, in Patience sgorga spontaneo tutta l'ammirazione per i Beatles di Stef "McCartney from Benicia". C'è ancora tempo per un po' di funky, per qualche power chords e qualche altra misurata svisata, giusto per completare una prova fresca e matura, non certo rivoluzionaria, ma in linea con il carattere del suo autore che negli amanti dell'hard rock classico e in tutti coloro i quali dalla musica ricercano un suono tagliente al servizio della forma canzone guarda con ricambiata stima e simpatia. Una summa degli ultimi 40 anni di rock sulle strade del nuovo millennio quando la comunicazione si è imposta come bisogno, ma l'ascolto è diventato arte.
 
un link al seguente post è presente qui: http://www.facebook.com/stefburnsofficial

giovedì 26 giugno 2014

TRE

TRE
Ismael
- autoproduzione - 2014

C'è davvero tanta tradizione cantautorale italiana nel terzo album degli emiliani Ismael. Mascherata. Ma c'è. Ben più di quello che si potrebbe pensare. Anche quando, come accaduto negli ultimi tempi, le chitarre si elettrificano attraverso jack e amplificatori emerge sempre preponderante la componente testuale attorno alla quale la musica si adegua di volta in volta bilanciando aspirazioni colte e dinamiche underground. La storia dell'attuale quintetto sassolese racconta un passato fatto di dubbi e ripartenze, supportato da un presente all'apparenza più definito che va ricalcando in musica la tenacia del fondatore Sandro Campani. Dopo l'utile esperienza con i Sycamore Trees, lo scrittore di Montefiorino si è gettato a capofitto in questa nuova avventura musicale, giunta ormai al decimo anno di vita e bagnata da un amore per il folk condiviso dalla sodale Barbara Morini, nel tentativo di dare alle stampe un lavoro finalmente completo su cui costruire un futuro solido in salsa padana. Molti i numi tutelari seguiti con deferenza oppure affiancati inconsapevolmente nello sviluppo delle nuove canzoni proposte; gianCarlo Onorato (l'ottima Le Tre) e il post punk su tutti; Cesare Basile (la scarnificata Canzone Del Cigno), ma anche Vasco Brondi con la sua urgenza espressiva degli anni Zero - a sua volta debitore del sempre carismatico Giovanni Lindo Ferretti - e il Capovilla de Il Teatro degli Orrori (Palinka) a pari merito, non poteva che essere così, dei primi, seminali, Marlene Kuntz. Ma mentre Godano e soci fin dai tempi del famigerato trittico CATARTICA-IL VILE-HO UCCISO PARANOIA avevano trovato presto la quadratura del cerchio per le loro composizioni alla pari di meteore come i milanesissimi Pila Weston di Carino E Sleale, gli Ismael ancora faticano a dare compiutezza in chiave rock alle loro comunque apprezzabili idee. Gli episodi migliori restano infatti le ballate acustiche e i brani meno irruenti (San Giovanni Di Querciola) che culminano in quello splendido strumentale che è l'evocativa Tema Di Irene. Paradigmatica in questo senso è la Canzone Del Bisonte, gucciniana fino al midollo, quasi uno scarto andato a suo tempo inspiegabilmente perduto e per fortuna riportato alla luce direttamente da FOLK BEAT N.1 e DUE ANNI DOPO, alla quale è facile affiancare il garage-beat del nuovo millennio di Se Non A Te. Piacciono le misurate inserzioni di sax a cura di Piwy Del Villano, musico già in passato al fianco del rambler modenese Luca Serio Bertolini, e il pianoforte del gradito ospite Emiliano Mazzoni, in procinto di rilasciare un disco solista nel corso dell'anno. Pregi su cui continuare a lavorare per trovare con il tempo l'amalgama necessaria per cucirsi addosso panni tagliati su misura e non semplicemente in maniera dozzinale. Ampi dunque i margini di miglioramento all'orizzonte anche se emergere in tempi brevi dall'affollato calderone posto sopra le braci del rock italico sembra, al momento, una possibilità ancora remota per il combo di Campani. Saprà nei fatti smentirci? L'augurio è un incoraggiamento.

mercoledì 25 giugno 2014

LA VIA DELLA SALUTE

LA VIA DELLA SALUTE
Fedora Saura
- Pulver & Asche Records - 2014 

Chissà cosa avrebbe pensato Giorgio Gaber dopo aver ascoltato le prime note di Peso/Mondo (Della Civiltà Civetta), brano di apertura al secondo lavoro dei ticinesi Fedora Saura, ma soprattutto dopo aver udito la voce di Marko Miladinovic, frontman dell'ensemble svizzero, così ben scandita e naturalmente modulata sulle frequenze di quella dell'indimenticato cantautore e performer milanese?! Seppur rivestite da sonorità diversamente cantautoriali, pronte a sconfinare nel rock più teatrale, le corde vocali del cantautore elvetico sono la prima fra le tante note liete che colpiscono l'ascoltatore incamminatosi di buona lena su LA VIA DELLA SALUTE. Saremo pronti alla rivoluzione annunciata e rivendicata da più parti? Certo, ma, ammoniscono neanche troppo sarcastici i Fedora Saura, solo scontrino alla mano, pedine consapevolmente colpevoli - ben più di quello che si è soliti pensare - di un sistema più grande di noi, capace di viziarci e coccolarci fino a ridurci all'immobilità, all'inazione, alla schiavitù dell'intelletto. Nel loro teatro-canzone contaminato da punk, jazz e lontanissimi echi di rock balcanico non c'è posto dunque per le mezze misure o qualsiasi altra forma di compromesso. Per raggiungere l'obiettivo dobbiamo essere realisti e concreti come lo sono loro, affabulanti scardinatori della parola e visionari equilibristi musicali, slegati da qualunque vincolo che non sia quello della reciproca attenzione all'altro. Senza scadere nell'anarchia, ma senza neppure restare legati al palo di dogmi e verità incontrovertibili, ecco compiersi "un pellegrinaggio - razionalista - tracciato dall'esperienza nel quotidiano, (...) lungo itinerari e sentieri gelosamente conservati nella memoria" recuperati dall'oblio in cui si vorrebbero far cadere. Non ci si senta perciò vittime di ingiustizie: bugiardi in fin dei conti lo siamo tutti. Soddisfatti e pure indolenti. E se Soma Pneumatico riecheggia nel suo lento sviluppo la lezione dei CCCP-Fedeli Alla Linea, Tenete Buoni Quei Cani partendo dalla caducità del divenire umano, torna ad indagare con accento e lucidità gaberiane in maniera quasi epicurea il tema della morte e di una dimensione ultraterrena di cui ora non ci è dato sapere e su cui nulla si può dire. Mentre solitamente sono le chitarre ad occuparsi di tessere trame sghembe e serrate, negli oltre 17 minuti lungo cui si dipana la progressione emancipata di Ex Europa Samba I II III (Est Euroba Sampa Xigareta) è piuttosto il pianoforte di Claudio Büchler a dare il là ai movimenti più arditi delle tre sezione che la compongono. Nell'ultima di queste, la viziosa Bagatella, il soprano serbo Sandra Ranisavljevic è il contro(in)canto magrebino-arabeggiante che colora di antiche corrispondenze il decadimento morale e il malcostume di una certa politica italiana prima di lasciare posto alla conclusiva Continentale (Artista Visiva), legata a doppio mandato con la canzone che la precede. Sempre sul filo dell'involontaria provocazione e con una radicalità di pensiero non comune. Chi dalla musica cerca una passiva immediatezza non troverà nei Fedora Saura alcuno stimolo per la propria ovattata curiosità; certamente saprà rivolgersi altrove per continuare a stordirsi di metadone culturale. Chi, invece, vorrà mettersi in discussione una volta ancora con il proprio gusto innato all'apertura e al confronto beh, qua troverà pane per i suoi denti. Perché in fin dei conti fare il proprio dovere è una questione di principio che si fa per sé stessi e per la propria dignità. Non certo per il plauso finale.

martedì 24 giugno 2014

PICCOLO ATLANTE DELLE COSTELLAZIONI ESTINTE

PICCOLO ATLANTE DELLE COSTELLAZIONI ESTINTE
Patrizio Fariselli
- Sony Classical - 2014

Quante volte ci è capitato di guardare il cielo in una notte d'estate e osservare nella quiete della sera le miriadi di stelle che tempestano la volta celeste riflettendo sull'essenza della vita e del cosmo o magari, molto più semplicemente, improvvisandoci "astronomi" in erba nel tentativo di identificare qualche costellazione diversa dalla classica Orsa Maggiora (con corrispettivo Piccolo Carro al seguito) mettendo a frutto le nozioni imparate distrattamente a scuola!? Quante occasioni abbiamo avuto fino ad oggi - e quante ne avremo ancora - per scrutare al di là della nostra atmosfera, con occhi ben aperti oltre quella finestra spalancata sull'infinito che perennemente ci contiene? Innumerevoli, come innumerevoli sono i nostri pensieri a riguardo, intimi e personalissimi, così semplici da condividere, ma al tempo stesso di non facile spiegazione. Affascinato come molti dai racconti legati all'astronomia e dai miti ad essa legati, Patrizio Fariselli dedica gran parte della sua ultima fatica discografica in solitaria ad una realtà dimenticata della cartografia celeste: le costellazioni obsolete, quell'insieme di assembramenti prospettici di stelle non ufficialmente riconosciuti dall'Unione Astronomica Internazionale a partire dal 1922 e per questo oggi non più in uso. Una suite articolata in dodici momenti per i quali ad ogni improvvisazione al pianoforte, coadiuvata da un ring modulator, corrisponde una di queste costellazioni estinte. Il criterio di associazione è uno solo: la sensibilità dello stesso Fariselli il quale, suggestionato da alcune di quelle visioni che per un motivo o per l'altro hanno "fallito", restituisce innanzitutto a sé stesso e in seconda battuta all'ascoltatore una contemplazione personalissima della volta celeste apocrifa, costruendo nuove prospettive come quelle alla base delle costellazioni stesse. In questo modo, anche nell'oscurità di una stanza, l'uomo tornerà a fissare il cielo con gli occhi della mente, orientandosi e perdendosi insieme. Viaggerà a bordo della mitica Argo Navis esplorando mondi sconosciuti che lo condurranno al limite delle terre emerse al cospetto del Polophilax; approfondirà la conoscenza della fauna terrestre e di quella acquatica, allargherà gli orizzonti della sua conoscenza per poi ripiegare verso casa a bordo di un leggiadro Globus Aerostaticus, pionieristico mezzo di locomozione celeste che lo ricondurrà alla propria dimora dove, ad attenderlo, troverà un piccolo e dispettoso Felis con cui giocare, come da bambino, prima di addormentarsi. Al risveglio ci sarà spazio per nuova musica. Quella di Home Music, improvvisazione ambientale concepita in maniera semplice attraverso un microfono e la finestra di casa spalancata sull'esterno, che fissa su nastro i rumori della natura circostante all'arrivo di un temporale estivo quando, nell'aria umida e già carica di pioggia, balenano lampi e si sparge minaccioso il fragore del tuono. E infine un omaggio. La conclusiva Taqsim è tutta dedicata ad Abdallah Chahine, musicista ed accordatore libanese che seppe inventare un pianoforte unico nel suo genere in grado di suonare sia con l'accordatura occidentale sia con quella orientale, ma soprattutto possessore di un respiro sullo strumento unico e al quale Fariselli guarda con attenzione mettendolo al servizio della sua ultima composizione. Cd da meditazione terrena in ambiente chiuso, con quella poca luce tardo-pomeridiana a filtrare attraverso le tapparelle, ma anche raccolta musicale da spazio aperto, notturno ed evocativo, PICCOLO ATLANTE DELLE COSTELLAZIONI ESTINTE è tutto questo e molto altro ancora: l'ennesima prova provata di come sette note musicali siano in grado di costruire mondi alternativi sfruttando una dimensione spazio-temporale spesso nascosta al quotidiano, ma che riposa in quell'essere umano così abile a ricostruire sé ed il proprio pensiero di fronte al creato. E le stelle stanno a guardare...

venerdì 20 giugno 2014

ONIRONAUTA

ONIRONAUTA
Kaleidoscopic
- Dischi Bervisti / Dreamingorilla / Woodworm - 2014

È una nuova, carnascialesca, Guernica quella che i promettenti Kaleidoscopic ci sbattono violentemente di fronte ai nostri occhi attraverso la complessa immagine di copertina realizzata dal chitarrista dei There Will Be Blood Riccardo Giacomin. Questo il punto di partenza visivo da cui si dipana presto una matassa musicale che fa di inquietudini e formidabile compattezza sonora una lucida dichiarazione di intenti. ONIRONAUTA è una idea, un modus vivendi, ma anche una carrellata spietata su un abisso di quotidiana normalizzazione della realtà. Per ottenerla il quartetto aretino ha lavorato duramente negli ultimi mesi cambiando pelle e irrobustendosi musicalmente. Due le novità sostanziali rispetto al passato più prossimo per un approccio comunicativo differente. La prima riguarda il passaggio tout court al cantato in italiano, espresso quasi come incidente di percorso nell'omonimo ep d'esordio; la seconda, il pressoché concomitante avvicendamento alle vocals, passate nelle mani della new entry Fabio Meucci andato a prendere il posto di Mario Caruso, precedente frontman e fondatore della band. Trenta minuti di vorticoso delirio sonoro, ma con una innegabile musicalità di fondo, sono l'atteso parto prodotto. In cabina di regia il funambolico Nicola Manzan, a.k.a. Bologna Violenta - ça va sans dir, è il valore aggiunto, il coordinatore e lo stratega di un progetto organico e multisfacettato insieme. La sua mano bervista si sente spesso nella claustrofobia generale delle scelte rumoristiche della band. Il delirio di Come Un Soldato, le accellerate smodate di Sottopelle e il solenne classicismo che determina l'essenza di Sensitivo sono l'esempio più fulgido e lampante. Ma ridurre questo esaltante lavoro ai soli interventi prodotti dal noto musicista veneto - coordinato da un'altra vecchia volpe come il "captain" Tommaso Mantelli - sarebbe riduttivo e francamente ingiusto nei riguardi dei Kaleidoscopic. I quali sgomitano e spingono sempre sull'accelleratore delle emozioni tra forze oscure e selvagge, in una parabola faticosamente ascendente che spazzi via a suon di decibel l'oblio in cui sembra esser caduto il mondo come lo conosciamo. Parafrasando il maestro Avoledo si potrebbe tranquillamente sostenere come ci sia "una sensazione forte proprio lì, in mezzo al torace: come se al posto del cuore ci fosse un terreno scavato, da cui tutto il buono è stato portato via. E nel vuoto prosciugato di ogni valore e bellezza, è come se lì adesso ci fosse una discarica di rifiuti", emblematico simbolo di pessimismo e negatività. È questa forte presa di coscienza, in ultima analisi, il motore per l'importante operato testuale della band. Forse per cambiare serve davvero uno scontro; ma prima di pensare a chissà quali propositi bellicosi rivolti all'esterno si guardi con coraggio dentro noi stessi. L'introspezione è l'ancora di salvezza, il cambiamento di mentalità radicale che può realmente rendere liberi. Del resto siamo tutti ostaggi di qualcuno o di qualcosa. 

giovedì 19 giugno 2014

THEE ASSTEMIANS

THEE ASSTEMIANS
Thee Asstemians
- HYSM?/Neon Paralleli - 2014

Pazzi e sconclusionati tre amici di lungo corso si incontrano un bel giorno, più o meno all'insaputa di tutti, con l'idea più malsana che potessero avere: realizzare nello spazio di una dozzina abbondante di minuti una imboscata sonora da fissare su quel supporto che comunemente tempo fa andava sotto il nome di disco, per vedere l'effetto che fa. Per la verità oggi la scelta vinilica è stata (temporaneamente?) accantonata, ma i cinque pezzi partoriti dal trio Spino-Ciappini-Intraina sono da un lato una autentica aggressione alle nostre orecchie, dall'altro una vitale iniezione di adrenalina sparata dritta al nostro cuore che torna così a pulsare come negli anni '90 quando - nonostante i tanti inutili soloni del malaugurio - la musica era ancora musica e le distorsioni erano ancora distorsioni. Cattive. Marce. Taglienti. Ciò che oggi viene così prodotto dagli strumenti di questi tre loschi individui dell'hinterland milanese che cappeggiano, elegantemente sgraziati, anche in copertina è un album di consapevole e disturbante disagio sonoro incentrato su due fattori chiave: la pesantezza di The Prayer, con le sue ficcanti urla dalla paura a lacerare l'aria satura di sgarbato doom, e i riff scarni, sghembi e riprovevolmente al fulmicotone che vanno a costituire i restanti episodi. Ognuno dei quali, in un momento di lucida follia dell'ascoltatore, potrebbe riflettere nell'attitudine più ancora che nella forma un momento musicale definito. Credere che Burn sia la quintessenza grunge del lotto è un incidente di percorso così come azzardare che si possa fare altrettanto con 1234 in ambito punk oppure ancora che Happy sia un approccio di elettronica asstemiana (ripetitiva, meccanica e del tutto priva di synth o tastiere!) mentre Jews sia applicabile al rock da classifica. È tuttavia una delle molteplici chiavi di lettura che la composizione in casa Asstemians concede a chi volesse approcciarvisi in maniera fin troppo costruttiva. Altri potrebbero più tranquillamente pensare che si tratti di uno sfizio portato a compimento da questo anomalo trio dopo anni di frequentazione e con lo zampino complice di Paolo Cantù, il quarto moschettiere mancato della band, ma sempre saldamente al timone con la sua carbonara Neon Paralleli quando si tratta di pubblicare destabilizzanti prodotti come questo. Altri ancora vorranno coniugare gli aspetti più strampalati dell'esecuzione (ricordiamo che Federico Ciappini è sì alla voce - spesso filtrata, ma anche alla chitarra; Mirko Spino percuote con veemenza quattro corde e Fabio Intraina irradia energia da dietro una batteria) con quelli progettuali. Poi ci sono senza dubbio quelli a cui il disco non arriverà mai. Pazienza. È stato messo in conto anche questo. Ma se c'è una caratteristica primaria di questo lavoro è proprio la sua leggerezza nell'approccio artistico, nella decisione di ritrovarsi in sala di registrazione una tantum, quasi per caso, senza alcun tipo di forzatura o preoccupazione. E liberare l'istinto del momento, facendolo convergere per catturarlo senza sovrastrutture. Altrimenti tanto vale. Com'è andata alla fine? Bene, decisamente bene: tanta sinergia e zero menate, come in quei film per cui vale il "Ciak, si gira!" e via, buona la prima. O nel peggiore dei casi la seconda. Un cult insomma. Amici miei - atto IV.
 

martedì 17 giugno 2014

OBTORTO COLLO

OBTORTO COLLO
Pierpaolo Capovilla
- La Tempesta - 2014

Ce l'aveva confidato lui stesso lo scorso anno, a margine di una delle tante repliche dello spettacolo La religione del mio tempo. "Sto lavorando con calma a due album. Uno è in collaborazione con Paki Zennaro", suo raffinato partner artistico proprio in quei reading dedicati a Pierpaolo Pasolini e con il quale si era affinata una buona intesa fatta di suoni minimali e parole recitate con trasporto e determinazione. OBTORTO COLLO è il risultato di quelle session e di quelle giornate, primo album solista per Pierpaolo Capovilla temporaneamente lontano dal suo Teatro degli Orrori. Per chi ha alle spalle almeno due album fondamentali come l'ottimo A SANGUE FREDDO e l'ancor più liricamente intenso e vissuto IL MONDO NUOVO le strade erano due. Ridursi al silenzio, magari optando per un album ambientale o comunque pressoché completamente strumentale oppure percorrere una via diversa, lontana dal rock sanguigno e fisico proposto in compagnia di Giulio Ragno Favero, Gionata Mirai e Francesco Valente. Capovilla accetta la sfida. Raccoglie i suoi appunti, ne redige di nuovi e apre lentamente la porta che conduce alla parte più intima di sé. Come rinnovarsi senza perdere un grammo di credibilità maturata in oltre vent'anni di carriera? Continuando a seguire i propri impulsi, affiancati da comprensibili dubbi e umane insicurezze, lasciando spazio all'uomo prima ancora che al portafoglio. A tratti controversa, quella proposta attraverso canzoni come Invitami e Dove Vai è una discesa tutt'altro che rilassata a lidi più pop, confidenziali, lineari, ma ugualmente articolati. Aguzzando l'ingegno e rivolgendosi, fra gli altri, a tutti quei musicisti che hanno reso fin qui il lavoro di Edda per Niegazowana un must discografico senza se e senza ma, l'operazione è un tentativo di dare nuova veste alle parole mai parche di un autore capace - merce sempre più rara - una volta ancora di dividere critica e pubblico. New skin for the old ceremony cantava Leonard Cohen giusto quarant'anni fa. E c'è molto del poeta canadese nel nuovo lavoro; non nei suoni scelti, ma nella capacità di raccontare storie in prima persona mantenendo un punto di vista comunque esterno. Storie di violenza domestica, come quella narrata in Quando che avremmo visto tranquillamente nel repertorio popolare del grande Jannacci, e di discriminazione sociale (Irene). Racconti in cui l'isolamento e le difficoltà affrontate dagli uomini trovano una muta risposta ora ne Il Cielo Blu ora più semplicemente al tavolino di un bar, sia che ci si trovi nel cuore magico di Torino (La Luce Delle Stelle) oppure a milleottocento chilometri di distanza dalla Mole Antonelliana in quel di Bucharest. Capovilla sceglie la via popolare eppure è quella meno facile; senza dubbio la più rischiosa. Infischiandosene di logiche e consensi facili tira dritto per la sua strada edificando mattone dopo mattone, canzone dopo canzone, un nuovo ponte di comunicazione con l'esterno, senza troppe illusioni, ma con il consueto sguardo disincantato, razionalmente emotivo. Nulla è difficile per chi ama. Neppure riempire quel vuoto incolmabile dentro sé riversato obtorto collo.

lunedì 16 giugno 2014

BERTOLI

BERTOLI
Alberto Bertoli
- I Nomadi - 2014

Chi la dura la vince. Dopo diversi anni di faticosa, ma salutare gavetta puntellati da qualche singolo dall'intento benefico, prestigiose collaborazioni live e il fumettistico ep IL TEMPO DEGLI EROI su cui faceva la sua comparsa la chitarra rouggente di Luigi Schiavone, Alberto Bertoli riesce finalmente a dare alle stampe il suo primo lavoro non senza evidente soddisfazione per il risultato finale ottenuto. A oltre dieci anni di distanza dalla sua collaborazione con i Sempre Noi di Gian Paolo Lancellotti (per i quali scrisse il blues di E Intanto) le strade del figlio dell'indimenticato Pierangelo si incrociano una volta ancora con il mondo dei Nomadi. Questa volta è nientemeno che Beppe Carletti a prendere sotto la sua ala protettrice il giovane Alberto producendone il disco d'esordio dopo l'interessamento iniziale del fido Massimo Vecchi, grintoso avamposto rock all'interno del combo novellarese. Affiancato in studio di registrazione dai gagliardi Manoloca, altrettanto noti al popolo nomade e capaci di sposare le istanze del giovane Bertoli in un connubio spontaneo di rock padano e melodie ariose, Alberto firma nove dei dieci brani in scaletta (alcuni in coppia con il già citato Vecchi) lasciando spazio alla penna del padre nella conclusiva e per nulla scontata Delta, omaggio al Grande Fiume che bagna l'Emilia - e a tutta la vita che gli fiorisce intorno - datato 1993. La scelta di affidarsi in apertura all'elegante pop rock di E Così Sei Con Me è del resto altrettanto naturale e programmatica, tra i ricordi di un'infanzia e gli insegnamenti di una giovinezza trascorsa al fianco di un grande uomo, eredità di coerenza e libertà, giusto preambolo al primo singolo Come Un Uomo con quella sua chitarra à-la The Edge che imperversa solare tracciando panorami aperti del tutto simili ai campi di grano che puntellano il territorio emiliano. Già dopo una manciata di ascolti è chiaro come Bertoli sia il nuovo indiano padano. Sincero e appassionato. Si vedano le accellerate di Quando Non Ne Hai Più oppure l'ironico rock'n'roll di Mondo Di Media con un debito grosso così con i conterranei Rats. Ma qua e là ci sono tracce pure dell'outlaw Graziano Romani e dei suoi Rocking Chairs, del riminese Filippo Malatesta e del primissimo Ligabue, fautori di un rock solido, a volte ricercato, quasi sempre orecchiabile, complici testi diretti e facilmente memorizzabili (Sulla Statale 106). Ugualmente dotato di quella loro stessa energia Bertoli lascia esplodere dunque tutta la sua emilianità anche nei momenti sonori apparentemente più distanti come Senza Davvero Un Perché, a tutta prima intonata alla musica celtica di Boomtown Rats e Celtas Cortos, ma che a ben vedere è indissolubilmente legata alle nostre corti padronali quando ai dì della festa si soleva danzar la sera sull'aia di casa, in spassosa allegria. Anche nella malinconia de Il Clown (mentre nell'arpeggio portante il pensiero corre alla nomade Tempo Che Se Ne Va) l'anima padana di Alberto trova occasione per manifestarsi, pacata e riflessiva, mentre piace sottolineare il messaggio pacifista contenuto nell'inno universale affrontato da La Storia Di Elena seppur non convinca del tutto il finale monco. Plauso a Gabriella Martinelli per i suoi interventi vocali nella romantica Se Sarai Lontana, ballad semplice, ma di grande effetto come, nel suo insieme, risulta esserlo tutto il cd, piacevole accompagnamento musicale in questo scorcio di 2014. Quando in casa propria si respira e vive Musica 24 ore su 24 i risultati non possono tradire le aspettative. Ora non resta che dare un seguito a questo BERTOLI, felice nel colmare il vuoto di una assenza e irrinunciabile come la felicità che precede l'attesa dell'incontro.

lunedì 9 giugno 2014

MINORANZA RUMOROSA

MINORANZA RUMOROSA
Danilo Sacco
- E20 Sound - 2014
 
C'è modo di poter tornare a coltivare i propri sogni e a rincorrere le proprie utopie? Oppure tutto è destinato all'oblio, vittima di un mondo capace di fagocitare volti ed emozioni in nome di una spersonalizzante ansia da prestazione? C'è modo di far sentire ancora la propria voce - alzandola se e quando necessario - oppure siamo destinati a soccombere di fronte alla damnatio memoriae di una secolarizzazione degli affetti e delle idee? C'è spazio per continuare a raccontare storie di forte impatto, fossero anche apparentemente minime, tali da rivelare una universalità che è dentro di esse e che la musica ha il pregio di mettere a nudo? Oppure il nostro tempo è scaduto mentre l'appiattimento massificato, l'apatia generalizzata e la paura di esporsi hanno avuto la meglio sull'essere umano? E ancora: è possibile una vita nomade... dopo i Nomadi? A tutti questi e altri quesiti risponde la MINORANZA RUMOROSA di Danilo Sacco, secondo lavoro in studio per l'ex cantante della band di Novellara, con una prova di carattere in linea con il suo passato più prossimo e nel solco della tradizione degli storytellers nostrani. A due anni di distanza dall'umorale e più intimo UN ALTRO ME il cantautore piemontese torna a far parlare di sé lasciando voce a chi voce non ha e non può avere nel caos magmaticamente (dis)ordinato della globalizzazione ad ogni costo. Con la direzione artistica di Davide Tagliapietra, per la seconda volta in cabina di regia, e annunciato in pompa magna dall'esplosivo singolo omonimo che tanto deve all'irruente icona punk Iggy Pop e ai Green Day più maturi, MINORANZA RUMOROSA evidenzia il lavoro di dignità intellettuale e cesellatura approntato dall'affiatata equipe che Sacco ha messo in campo a partire dall'imprescindibile riff master Valerio Giambelli e dall'altrettanto decisivo Andrea Mei, uomo chiave tanto nella costruzione dei brani quanto nel personalizzare con colori e accenti unici gli umori e le sensazioni da essi trasmessi. Idee, entusiasmo e passione. Sono questi gli ingredienti niente affatto segreti con cui aprirsi, ricettivi, al mondo esterno (si veda la collaborazione con il rocker croato Gibonni nella ballad finale She Said "Non Credere"); captando input, metabolizzando stati d'animo, rielaborando eventi e narrazioni al fine di raccontare in musica la realtà di tutti i giorni. Sia essa una spina nel fianco di stridente attualità come lo sono i licenziamenti de La Mia Lettera oppure estremamente più poetica, come l'amore per la bella Emilie cristallizzato nel tempo dal pittore Charles Moulin. Storie comuni, ordinarie, spesso umili. Per ognuna un vestito cucito su misura. Così alla sognante leggerezza pop di Novembre Mattina, limpida e cristallina, ribatte la dirompente circolarità della potente Io Non Voglio Più (con i suoi riusciti escamotage metrici), a suo modo replicata dalle riflessioni di Nati Per Vivere e infine mitigata con toni leggendari dalle Highlands scozzesi e dalle lande irlandesi così care ad Erin ed evocate dalle cornamuse di Charlie Allan. L'eco lontano  di Se Vorrai Se Vuoi succede alla drammatica storia di disinteressata solidarietà descritta in Da Qui All'Eternità. Qui Sacco, attraverso il racconto di exempla come quello del pastore ossolano Walter Bevilacqua, straordinario nella sua ordinarietà, sembra raccogliere il grido di chi, a gran voce, reclama per i cantautori un ritorno alle origini affinché tornino una volta ancora socialmente scomodi, non più schiavi del proprio ego né sedotti da facili soluzioni di comodo. Anche la già nota Niente È Per Sempre, spesso provata in sede live, trova il giusto equilibrio in questo album collettivo dove ognuno lavora sul meglio del compagno che ha a fianco; svetta la collaudata sezione ritmica Costa-Melotti, ma gli arpeggi acustici delle chitarre sono da brivido per un pezzo Americana DOCG. È musica ribelle, dell'anno 2014. Solida e resistente. Da ascoltare ad alto volume. Per continuare nel sogno affinché l'utopia diventi una volta ancora realtà.