martedì 24 febbraio 2015

ROCKNADO

ROCKNADO
Un Giorno di Ordinaria Follia
- autoproduzione - 2015

Minacciosi fin dall'immagine di copertina i padovani Un Giorno di Ordinaria Follia entrano a gamba tesa nell'universo musicale italiano proponendo un roboante mix di rock duro che fissa le proprie radici nell'humus grezzo e distorto di cui si sono alimentate formazioni storiche d'oltreoceano come Kyuss, Foo Fighters, Down e Monster Magnet, ma che non ha lasciato indifferenti a suo tempo gli Stone Temple Pilots di Scott Weiland e i Corrosion of Conformity targati Pepper Keenan, riuscendo ad attecchire perfino nella penisola scandinava grazie a Spiritual Beggars ed Hellacopters, tutti, a loro volta, indistintamente debitori nei confronti dei seminali MC5, precursori di quel Detroit sound a cavallo tra 60's e 70's che seppe produrre un evergreen come KICK OUT THE JAMS. Scafati, brutti, sporchi e cattivi, i "cugini" Fumara non si perdono in troppe sottigliezze e per mettersi alla pari degli illustri colleghi di cui sopra decidono fin dalle prime esplosive note dell'aggressiva Polar di affrontare l'ascoltatore di petto, chiudendolo da subito in un angolo con il chiaro intento di fiaccarlo ai lati e tramortirlo, macinando riff muscolari e mulinando nell'aria vigorosi fraseggi punk prima di assestare il colpo del KO scaricato in soli ventidue minuti di chitarre stoner e groove esplosivo. Compatti ed efficaci. Del resto la risolutezza con cui tutto ROCKNADO - secondo lavoro ufficiale dopo l'esordio datato 2011 - viene presentato anche in concerto lascia intendere una coerente componente artistica della band a 360 gradi, bilanciando gli aspetti più prettamente musicali con quelli derivati e presi in prestito da un immaginario cinematografico che nella pellicola di Joel Schumacher Un giorno di ordinaria follia appunto trova il suo più che convincente vertice. Così agli UGdOF tocca il compito di mettersi nelle condizioni migliori per riscrivere una colonna sonora di un cortometraggio metropolitano incattivita, rabbiosa e allucinata, che abbatta confini prestabiliti e facili pregiudizi, incalzante accompagnamento per una nuova Arancia Meccanica in salsa patavina per la quale alla regia è stato scritturato un inatteso Tarantino nostrano, tutto intento a tirare le fila di una trama anabolizzata da nuovi impulsi e irrobustita con un sound citazionista quanto si vuole, ma ben riuscito e coinvolgente. Quasi fosse un nuovo capitolo di una saga in cui esasperazione e dramma sono esposti secondo una caratterizzazione maggiormente accentuata e a tratti distruttiva, i cinque musicisti senza giacca, ma ancora in cravatta si muovono scorretti e allucinati in una ostinata ribellione al sistema, controversa lotta di classe dalla quale emanciparsi con ogni mezzo, pedine loro malgrado di un ingranaggio lento e inarrestabile, destinato a travolgere ogni cosa. Una estenuante prova di forza costruita su coordinate artistiche sedimentate nella memoria, ma sistematicamente rinnovate dalle problematicità del quotidiano, credibile ed inesausta fonte di soprusi al calor bianco. Del resto, che la realtà spesso superi la fantasia ne siamo purtroppo un poco testimoni tutti; e proprio in questi casi anche "se vai a cercar fortuna in America ti accorgi che l'America sta qua".  

lunedì 23 febbraio 2015

BISOGNAVA DIRLO A TUO PADRE CHE A FARE UN FIGLIO CON UNO SCHIZOFRENICO AVREMMO CREATO TUTTA QUESTA SOFFERENZA

BISOGNAVA DIRLO A TUO PADRE CHE A FARE UN FIGLIO CON UNO SCHIZOFRENICO AVREMMO CREATO TUTTA QUESTA SOFFERENZA
Paolo Saporiti
- Orange home Records - 2015

Paolo Saporiti è un pazzo. Un pazzo furioso, lucido intellettuale e fine osservatore del mondo. Canta l'isolamento, la tensione, i tormenti. Nella loro fase più acuta essi diventano epidemia. Siamo tutti a conoscenza dei rischi che ci circondano eppure solo lui sembra farsene carico. Non per arginarla, ma per permettere che essa si diffonda salvifica. Non un assistente paramedico dunque, ma un assistente. Punto. Non un dottore, ma un paziente in costante cura e ricerca, portatore sano di una verità che non ha vincoli e men che meno regole. Un testimone scomodo a sé stesso, condannato alla perenne difesa di un frammento di mondo che guida il proprio destino sempre troppo rognoso per essere semplice transazione verso altro. Un ladro di sensazioni, ma anche megafono umano per radicalizzazioni emotive rubate durante il giorno e impossibili da smaltire prima di coricarsi a letto. Volevate conoscere un motivo credibile, sincero e concreto per cui comporre e realizzare canzoni? Beh, eccovelo. Amante dei paradossi e delle sfide, Saporiti nel doppio ep BISOGNAVA DIRLO A TUO PADRE CHE A FARE UN FIGLIO CON UNO SCHIZOFRENICO AVREMMO CREATO TUTTA QUESTA SOFFERENZA lascia emergere prepotentemente tutta l'irrequietezza per una condizione genetica sempre aperta al conflitto, che qui si prodiga nonostante l'apparente valenza di segno opposto in una accorata difesa della famiglia - la propria - realizzata per lo più in controtendenza, come invettiva e rabbioso attacco frontale che non teme conseguenze anche se sferrato contro un archetipo di vita a tratti sacro, memore di come pure la bestemmia sia in realtà lode a Dio. E allora giù a frantumare il cuore e a spaccare gli atomi dell'anima, a sbilanciare di emotività un vivere altrimenti quotidianamente atrofizzato nella consuetudine, per scardinare tutte le convenzioni e i conformismi che hanno fagocitato in elucubrazioni sociologiche quel bisogno di appartenenza rassicurante che proprio la nostra prima forma di socialità concede. Sei sono i segreti d'ufficio che, attraverso il lavoro di condivisione concettual-sonora operato nei due capitoli rispettivamente da Raffaele Abbate e Xabier Iriondo, diventano combustione per una poetica talmente esplicita da risultare ossessivamente pericolosa e urticante. La tensione catturata dall'esploratore sonoro italo-basco che osa in Io Non Resisto consegna all'ascoltatore brandelli di vita reale mai mercificati, esposti nella loro drammatica concretezza e oscenità, solo in parte mitigata dagli arrangiamenti meno arditi, ma non certo confidenziali, di Abbate nel suo doppio speculare, ricollocando in un naturale alveo di sperimentazione l'iniziale dispersione melodica. Frammentazioni, frastagliature, squarci per le quali Figlio Di Madre Incompleta filtra umori e sfuma inquietudini, lucida pianificazione all'infezione, rallentata sull'orizzonte degli eventi fino a ridursi ad una immobilità attiva. La filastrocca A Modo Mio, abbandonata a sé stessa, è ripetutamente nenia ossessiva e instabile, esempio concreto del caos dei pensieri che si affastellano nella mente e spossante confidenza a cuore aperto dall'impatto emotivo lancinante. La voce segue solo ciò che l’orecchio può effettivamente sentire. In Costante Naufragio prima carezza e culla; poi tra cornamuse, liquidità di elettronica analogica e percussiva melodia selvaggia conficca una lama affilata nel bisogno primario di amore, a trafiggere ogni possibilità di sogno, consapevolezza nuova di perdita dell'innocenza. Hotel Supramonte evoca bombardamenti interiori che esplodono nel silenzio di una crocifissione laica senza aneliti salvifici, furto artistico dal sapore agrodolce; Per L'Amore Di Una Madre ne cancella ogni proposito bellicoso. Anticamera della nostra stessa età adulta la nuova opus di Saporiti è urgenza allo stato puro, vitale esplosione di claustrofobia che la gabbia toracica non può contenere, consolidamento di una statura artistica per l'unico vero cantautore italiano capace di competere fuori dai ristretti confini di casa nostra. Una bomba ad orologeria esplosa in un silenzio assordante.

martedì 17 febbraio 2015

PROTESTANTESIMA

PROTESTANTESIMA
Umberto Maria Giardini
- La Tempesta Dischi - 2015

In occasione di uno dei suoi ultimi appuntamenti live, tenutosi nei pressi dell'idroscalo di Milano per festeggiare l'etichetta Woodworm in compagnia di entusiasti colleghi, qualcosa era trapelato: cambio di backing band praticamente deciso e lavori in corso per il nuovo disco già calendarizzati. Era il marzo del 2014. A quasi un anno esatto da allora ecco comparire all'orizzonte PROTESTANTESIMA, terzo lavoro per Umberto Maria Giardini dopo gli antichi fasti rilasciati sotto il monicker Moltheni e l'interessante parentesi strumentale dei Pineda forse esauritasi precocemente. La certezza di non ritrovare più due elementi di spessore come Giovanni Parmeggiani e Cristian Franchi, decisivi per un certo tipo di approccio musicale quadrato e fantasioso insieme, fa avvicinare al nuovo album con curiosità mista a un briciolo di scetticismo. Siamo rinfrancati certo dalla presenza del riconfermato e ormai storico collaboratore Marco Marzo "Maracas" - unico membro degli Accordi dei Contrari rimasto - così come la sorpresa di trovare Giulio Martinelli dietro le pelli, dopo il roboante apprendistato con Matteo Toni, rende meno amara la pillola di un cambio di organico comunque notevole che, coinvolgendo l'altra new entry Michele Zanni al basso e alle tastiere registrerà una naturale modifica nelle coordinate del sound. E forse proprio la duttilità, la disponibilità con cui la nuova formazione si è messa al lavoro alla ricerca di quell'amalgama che sa essere indispensabile soprattutto in sede live, e che oggi non è ancora così spontanea come in passato, è uno dei punti chiave del nuovo cd. Sia chiaro, qui non si è andati alla ricerca di nuove forme di coscienza, non si è voluto attualizzare il lato più spettacolare del rock, non si è trattato di combattere un'epica battaglia con il proprio passato né di rilanciare con un azzardo al futuro. Semplicemente, Giardini richiede a sé stesso carta bianca per dare voce a una lucida analisi in musica dello stato delle cose, supportata come di consuetudine da una poetica evocativa in cui viene abbattuta la strategia della tensione, ma attraverso la quale non si nega mai un senso di insoddisfazione che è invettiva - mediata dalla ragione - contro le barbarie, fotografia netta dell'odierna decadenza sociale e, di riflesso, suo comprensibile e condivisibile disprezzo (Il Vaso Di Pandora). Tornano così le ballate ad ampio respiro di cui è sempre stato grande interprete e autore e si ammorbidiscono certe asperità elettriche, riportando le lancette dell'orologio indietro nel tempo quasi fossimo in presenza di una inconsapevole via di mezzo tra I SEGRETI DEL CORALLO e LA DIETA DELL'IMPERATRICE. Magistrale una volta ancora il lavoro in sala macchine di Antonio Cooper Cupertino, elemento aggiunto al suono che Giardini da anni cerca e affina, lavoratore capace e pragmatico, in grado di trovare il bello con quello che ha a disposizione, grazie a una dedizione e a una conoscenza della materia invidiabili. Così, il flauto dell'orchestrale Silvia Catasta non è semplice colore in C'è Chi Ottiene E Chi Pretende, ma parte integrante di una trasposizione musicale che è idea fattasi materia su testo criptico, fuori dal tempo; allo stesso modo, la fascinazione retrò di Molteplici E Riflessi e le alternanze tra vuoto e pieno (linfa vitale per le dilatate atmosfere di Sibilla) diventano miele corroborante per la suggestiva Pregando Gli Alberi In Un Ottobre Da Non Dimenticare, dalla progressione umorale notturna e psichedelica. Anacoreta delle sette note, capace di precisare zone inesplorate di maturità cantautoriale, Umberto Giardini, azzerato ogni tipo di esasperazione, si conferma a quasi vent'anni dall'esordio portatore sano di una persuasiva visionarietà che, seppur da lontano, guarda con rispetto alle grandi stagioni del rock, veicolando una inesausta ricerca del Bello in grado di scardinare le regole tra pubblico e privato. Un rifugio di raffinata resistenza artistica a cui non sappiamo rinunciare. "E camminiamo via..."

giovedì 12 febbraio 2015

CADORI

CADORI
Cadori
- autoproduzione - 2014

Si respira una goccia di infinito nelle architetture pensili su cui poggiano le canzoni contenute in CADORI. Si ascolta l'eco di un tempo lontano sospeso tra passato indefinito e il libero flusso di coscienza che agita e permea la natura misteriosa dei sogni. È un cuore di ovatta, morbido, ma sintetico, delicato, libero da logiche commerciali o forzate forzature. Sono le costellazioni di Vasco Brondi messe a fuoco ad occhio nudo. Senza le propulsioni di Federico Dragogna e gli arzigogoli strumentali di session man validissimi, ma accessori, Cadori, al secolo Giacomo Giunchedi, dà infatti alle stampe il suo esordio solista, parallelo al percorso indietronico con i Torakiki e sequenziale a quello intrapreso nei panni di Ian Vincent, realizzando un fascinoso quadro musicato in cui chimica e analogica si confondono materialmente fino a fondersi in un magma senza dubbio fluido, ma parimenti destinato a resistere nel tempo. Basta davvero poco perché solidifichi. Una intuizione, un presagio, un traguardo, perfino una difficoltà: tutto ciò che possa portare ad uno stato di grazia interiore, solo in un secondo tempo esplicitato con suoni e parole. Così, molto semplicemente, alla luce della luna. Nella notte è il racconto di intere giornate, il salvataggio delle proprie idee, l'allerta affinché non vadano disperse nella confusione del giorno. Una decompressione densa, satura di emozioni, in un'atmosfera priva di veri sussulti, ma intrisa di corrispondenze e reciprocità. Un viaggio anedottico attraverso cui ci guidano perfino i titoli delle canzoni, capaci di esprimere nella loro (voluta?) concisione sensazioni e stati d'animo proposti come singoli fotogrammi di un più ampio percorso visivo e immaginifico. Un addestramento sentimentale che ha in sé la propria chiave di lettura, in grado di salvare dalla violenza delle superstizioni e dalle discriminazioni. È il lavoro dignitoso, ma mai troppo riconosciuto dalla società, di chi preferisce o è costretto a preferire l'incerto alla sicurezza della pianificazione, delle cose date una volta per tutte, specializzandosi direttamente sul campo e non in un asettico laboratorio tirocinante. È il metodo alternativo al sentire  comune che incontra ugualmente urgenze ed esigenze riuscendo nelle sue forme più alte a educare prima al pensiero poi all'atto pratico; un punto di vista sempre più rivoluzionario negli anni di frenesia che ci circondano e di cui siamo parte integrante. Del resto, gli aiuti diversamente proposti non sono poi così adeguatamente commisurati alle necessità attuali ragion per cui i passi più importanti per non venir travolti dall'impetuosità degli eventi è preferibile siano compiuti non nel più breve lasso di tempo possibile, ma dopo una più ampia e ponderata riflessione, necessitando di quella sedimentazione che proprio Giunchedi fissa oggi su disco. Con l'intenzione di non smettere e, qualora possibile, di scuotere le fondamenta di un isolamento indotto, dove l'emarginazione è la regola di vita e il disinteresse un vanto di cui fare sfoggio. Una iniziativa privata per un miglioramento pubblico. E cantava le canzoni...

martedì 10 febbraio 2015

PENSIERI VERTICALI

PENSIERI VERTICALI
Stefano Barotti
- Orange Home Records - 2015

Quando, nel tempo, la pianta è stata coltivata con cura  e soprattutto ha messo radici profonde in un terreno fertile i frutti non tardano certo ad arrivare. Così è pure la creatività, disciplina da alimentare e praticare giornalmente come qualsiasi altra scienza o consuetudine. Con l'atteso PENSIERI VERTICALI Stefano Barotti si conferma ottimo cantastorie della nostra età, abile sarto abituato a confezionare su misura non soltanto abiti da cerimonia, ma anche piccoli e dettagliati ricami altrimenti poco visibili. Che ciò avvenga mediante una scrittura immediata, di getto, oppure attraverso una costruzione architettonicamente più meditata e costruita poco importa: la facilità con cui il musicista massese mette in fila le sue nuove canzoni è segno di una sopraggiunta maturità, non soltanto artistica, che va definendosi con sempre più brillante equilibrio tra rime e accordi. Mai sopra le righe, misurato nell'esposizione, eppure graffiante e poetico insieme, Barotti è il nostro fido consigliere in grado di suggerire musica vergine e condividere istanti di vita che altri non sono ancora in grado di cogliere come già maturi e universali. A quasi una decade di distanza dal precedente GLI OSPITI, prodotto in collaborazione con il mentore Jono Manson sull'asse Sarzana-New Mexico, poteva essere facile perdersi nella lavorazione di un nuovo album; la presenza in cabina di regia di un sempre più decisivo Raffaele Abbate ha invece compattato le idee sedimentate nel corso di questi anni incrementandone il lato emozionale, ma al tempo stesso prediligendo una eterogeneità di fondo che la voce particolare di Barotti tiene saldamente unita. Tra Francesco De Gregori e Ettore Giuradei, l'affabulatore di confine apuano si muove a proprio agio tra uomini armadillo e arcobaleni rubati, soffermandosi su storie straordinarie nella loro ordinarietà (l'indeterminato romanticismo della didascalica La Ragazza e l'invitante Blues Del Cuoco; il nitido percorso umano del cacciatore di nuvole Cuore Danzante e l'omaggio a lui dedicato della strumentale Sulla Pietra Del Pane Sfidando Il Drago Con La Spada Di San Giorgio con assolo di chitarra resofonica firmato Max De Bernardi), diario minimo sullo scorrere del tempo, realizzato con cura e attenzione e indirizzato verso tutti coloro i quali hanno saputo cogliere l'infinito negli scritti di Fogazzaro e Gozzano. Anche quando l'occhio e le parole fissano nella memoria prima, sulla carta poi momenti di crepuscolare spontaneità siamo al cospetto di metafore di quotidiana comprensione, ingentilite da uno stile essenziale, a tratti favolistico, con il piglio da consumato folk-singer (la brillante Vorrei Essere, l'ironia di Giudizio Non Ho). L'essersi circondato da un nugolo ben definito di strumentisti è altra felice scelta artistica; così, mentre Vladimiro Carboni alle pelli e l'alternanza Giannetti-Silvestri al basso si occupano sistematicamente delle fondamenta ritmiche, sono gli archi di Luca D'Alberto a suggerire un retrogusto di anoressico blues all'eccellente Povero È L'Amore e spetta ai fiati di Vittorio Alinari regalare brividi nel raffinato cantare l'altra metà del cielo contenuto in Rose Di Ottobre. Spessore e qualità anche nelle reminiscenze bennatiane di Nerone, con intrecci chitarristici armonizzati che conducono diretti a Ogni Cento Parole. Un ultimo saluto all'ascoltatore è affidato alla conclusiva Girasole, soliloquio intriso di malinconia, con l'amarezza consapevole e disillusa per una esistenza mobile, dinamica, complicatamente multiforme che richiederebbe una seconda vita per non fallire più. Opinioni, sensazioni, appunti: pensieri verticali, musica d'autore fra tradizione e introspezione, tra il sogno americano e il risveglio mediterraneo, libero spazio aperto per chi vuole innamorarsi, funambolo chagalliano perennemente in volo, fra parole e riflessioni.

lunedì 9 febbraio 2015

RIVOLUZIONE & SENSI

RIVOLUZIONE & SENSI
Rigo
- MRM Records - 2015

Che il sodalizio artistico tra Antonio Righetti e Sara Del Popolo non si fosse esaurito con il riuscito ANGELI E DEMONI era una certezza assodata già da tempo, una necessità narrativo-musicale rinnovata e consolidata oggi a distanza di soli tre anni dai primi timidi passi mossi con l'ep SOLO che di questo connubio costituisce i prodromi. A riprova della sinergia sviluppata dall'insolito duo ci sono infatti dieci nuove canzoni in lingua italiana, sviluppate una volta ancora a partire dalle suggestioni testuali che la scrittrice campana ha voluto inviare al bassista emiliano e da quest'ultimo musicate con il gemello di ritmo Roby Pellati presso gli studi aretini The Garage grazie alla collaborazione tecnica dell'altrettanto fidato Fabrizio Simoncioni. Ma RIVOLUZIONE & SENSI non è la pedissequa part II del cd che lo precede. A partire dalla convocazione del virtuoso Frank Ricci alla sei corde, il nuovo lavoro targato Rigo si muove su coordinate cantautorali che guardano però all'Inghilterra, agli anni '80 camaleontici e ricchi di spunti sonori, in una continua sfida alle regole tra nevrosi pop e cinismo new wave, complice forse anche l'abortito progetto TRUTH & LIES; con un tocco di elettronica (La Tigre Reale) che non ti aspetti (Nudo E Vero) sparsa qua e là, non tanto per irrobustire il groove, mai venuto meno in casa Righetti, ma per offrire appunto qualcosa di nuovo ad ogni nuova uscita. Sì, perché Rigo è veramente un musicista indaffarato a "fare la sua cosa", a inseguire i suoi "sogni di rock'n'roll", ma anche un artigiano di talento che rischia sempre in prima persona mettendoci la faccia e l'anima. Sembra un paradosso, ma dopo la separazione da Ligabue (con relativo picco di visibilità che l'ha fatto conoscere anche al grande pubblico) il bassista modenese si è letteralmente fatto in quattro. Accanto alla produzione solistica, eccolo accompagnare Danilo Sacco nelle sue scorribande post Nomadi; eccolo calcare i palchi con i Lowlands di Edward Abbiati, eccolo addirittura trovare il tempo per ricostituire gli storici Rocking Chairs da cui nacque tutto e, riordinate le idee, esibirsi con tutti coloro i quali bruciano ancora di musica e hanno l'impellente necessità  personale di attaccare un amplificatore per scaricare watt e passione in un never-ending tour il cui canzoniere questo cd va rimpolpando. Probabilmente non il migliore di una discografia sempre più nutrita, ma una volta ancora verace, sincero e giovane, come un buon bicchiere di lambrusco (chiedete della Lambrusco edition e vi sarà dato anche quello). Frizzante e funky (Woman), amabile, ma corposo (Io Non Resisto), anche quando la musica sembra faticare per trovare le giuste misure ad un periodare sempre ampio e poco disidratato (Delle Tue Mani), il nuovo lavoro di Rigo è attraversato da un filo rosso che scioglie nodi e reclama attenzione, stimolo continuo, sintomo di una malattia pulsante da cui è bello non guarire mai. Raccolta sequenziale di riflessioni e polaroid sonore, RIVOLUZIONE & SENSI è l'album di passaggio che approda a nuovi lidi, senza pressioni esterne, ma sempre al servizio di una incrollabile fede nei propri mezzi, con una versatilità in cui l'alternanza fra speranze e delusioni lascia testimonianza di sé superando ostacoli e pericolose assuefazioni. L'ennesima zampata di un vecchio leone della musica mai domo.

venerdì 6 febbraio 2015

LA PRIMA VOLTA

LA PRIMA VOLTA
Filippo Andreani
- autoproduzione - 2015

È un disco di passioni forti e di racconti sinceri questo atteso LA PRIMA VOLTA, ma è anche una carrellata di volti, di nomi, di esistenze e un crocevia di sinergie tra il suo autore Filippo Andreani e la storica band combat rock dei Linea, a loro volta affiancati da una manciata di ospiti prestigiosi che mettono la faccia e il cuore, uniti per una giusta causa: il recupero della memoria. Una memoria sociale, collettiva, di sostanza, che sappia guardare al passato non come malinconico ripiegamento su sé stessi e chiusura al mondo, ma come inesausta fonte di conoscenza, pozzo profondissimo di sapere da cui attingere a piene mani per ricordare come eravamo una volta e capire cosa siamo diventati oggi. Un libro aperto, a tutto campo, spalancato su pagine di vita privata alternate a momenti più leggeri, ma ugualmente sospesi tra una spiritualità laica e una fratellanza materica ben radicata. Che si parli di calcio o di Resistenza poco importa: non è il cosa, ma il come a fare la differenza. Stefano Borgonovo, Gigi Meroni, Adelmo Cervi, Gianni Brera, Angelo Tagliabue sono solo alcuni fra i protagonisti individuati da Andreani per raggiungere uno stato di consapevolezza che fughi ogni ostilità e si cimenti in una riappropriazione concreta della propria identità; qui tutto segue un filo rosso e il cantautore comasco decide addirittura di avvolgerlo attorno a sé, per non perderne il tracciato, ma soprattutto per testimoniarne con semplicità l'importanza. Anche il mezzo è secondario rispetto al fine. Rock (Veloce), reminiscenze punk, impianti combat folk (Che Ti Sia Lieve La Terra), ritmi in levare (Lettera Da Litaliano), nulla è più costante delle mutazioni; nel suo piccolo, un "collage sandinista", in grado se necessario di aprire a suoni più prettamente cantautorali (Tito, 20 Gennaio 2014) o di virare su terreni impervi e pietrosi (Il Prossimo Disco Dei Clash) quando la vita lo richiede. Ma se vi venisse domandato di indicare il vertice del cd una sola sarà la scelta possibile: Gigi Meroni non è soltanto uno splendido omaggio alla Farfalla Granata scritta e musicata a quattro con il geniale Luca Ghielmetti, ma la scoperta di quell'uomo che vorremmo essere un po' tutti e che in noi alberga, con l'entusiasmo del bambino, la consapevolezza dell'adulto, l'estrosità dell'artista, in grado di liberare l'adrenalina e scatenare l'entusiasmo prima di sfumare rapidamente nel mito. Una canzone di amore e morte, senza tempo e senza età, degna di ritagliarsi uno spazio nel pantheon della Musica per manifesta superiorità, in grado di offrire emozioni uniche per le quali la Sorte diventa solo una delle infinite variabili che si parano di fronte all'esistenza umana e che apre paradossalmente a nuove possibilità una volta affrontata. La summa di un album nato come esigenza personale, ma che in breve tempo ha saputo raggiungere e toccare corde segrete di più persone, esperienza comunitaria che chiede semplicemente di essere suonata davanti a quel pubblico popolare testimone di un cambiamento sociale, simbolico e radicale, sempre attuale. Come un pugno chiuso. Intento a reggere, custodire, proteggere. 

giovedì 5 febbraio 2015

YERSINIA

YERSINIA
Cum Moenia
- Sinusite Records - 2015

Avevano dimostrato di saper dosare note e suoni tanto in sede live quanto nelle prime prove in studio cosicché l'attesa per il loro debutto su lunga distanza si era rivelato d'improvviso necessaria e inderogabilmente urgente. Dopo una attenta verifica delle potenzialità espresse sull'ep DAL NUMERO ALLA FORMA i palermitani Cum Moenia approdano ora al ben più corposo e articolato YERSINIA grazie alla fattiva collaborazione con la Sinusite Records di Duilio Scalici, immergendosi in paesaggi sonori foschi che si sviluppano e si diffondono a macchia d'olio come un virus, come un germe infetto, come il batterio della peste di cui Yersinia non è altro che il nome scientifico. Si respira l'odore della morte mentre il suo ineluttabile senso di vertigine appare sempre più chiaro e luminoso nell'oscurità di particelle e molecole stabilmente produttive malattia e infezioni. Si rischia di cadere, ubriachi di decadimento fisico e morale, nel baratro dell'oblio perenne mentre il terreno sotto di noi mano a mano scompare dissolvendosi davanti ai nostri occhi. La redenzione pare lontana, come un capriccio, uno scherzo di natura immaginato dall'uomo, ma non donato da Dio. Quasi fosse una sinestesia in musica il percorso che si estende dalla title track alla conclusiva 28 Days Letter, cover strumentale di John Murphy, vive di chiaroscuri sfumati, in cui l'ossessione di notti insonni e le tensioni accumulate durante i giorni, algide come plastiche mutazioni genetiche, convogliano nella paura che circola insistente nell'aria. Un suono etereo, lontano parente dell'ambient music comunque meno spinta (Lungi Da Me), ma ben radicato nella new wave elettronica e minimale (Felix) e nel post rock (The Silence Of Mrs. Rogiak), processato in fase di sintesi da aperture acustiche (Miles) e distorsioni controllate (The Tour Of Damascous) come si trattasse di un film sceneggiato da Oliver Stone e diretto da Martin Gore. Massiccio, ma fluido, delicato eppure penetrante YERSINIA fa in modo tale che i Cum Moenia si muovano tra gli opposti per bilanciare un suono evocativo e curato, in grado di fornire diversi piani di lettura a un mancato concept album partito dalla propria immaginazione - fraintendibile quando non ignota - e proprio per tale motivo fonte di continue e inesauribili interpretazioni. Una tavolozza di colori freddi, ordinatamente al servizio dell'ascoltatore il quale, arrugginito nella sua quotidianità, ha l'occasione di riscoprire un disorientante incubo ad occhi aperti, ritmicamente temperato e densamente onnivoro. Non esiste più posto di lavoro o attività associativa capace di isolare il virus dell'anaffettività: ritmi frenetici e convulsi si susseguono senza requie ogni giorno adattandosi ai nostri mutamenti sociali e privati, combattuti tra un desiderio di alienazione sempre maggiore e la solitudine intesa come valore dominante. La rassegnazione sembra essere dietro l'angolo mentre l'epidemia ci divora e la necrosi fa di noi il suo vettore più letale. I Cum Moenia ci accompagnano in questo lungo viaggio.               

mercoledì 4 febbraio 2015

HUMAN MACHINE

HUMAN MACHINE
NODe
-  MyPlace Records - 2014

La macchina umana a cui i Not Ordinary Dead hanno deciso di rivolgere la propria attenzione per ordire le trame del loro nuovo album non è il prototipo del superuomo di nietzschiana fama né un semplice umanoide tutto ferro ed ingranaggi destinato ad una lenta e futura rottamazione. Il concepimento di questo ibrido musicale che nota dopo nota si manifesta apertamente in tutta la sua umana corruttibilità nasce in realtà da un periodo assai tormentato e complesso di Johnny Lubvic, membro fondatore insieme all'altrettanto imprescindibile Kamoto San di quello che a suo tempo fu il nucleo originario della band. Il profondo disagio interiore maturato dal vocalist campano si consuma febbrile nella rapida sequenza di brani che governano i rapporti tra ansie e speranza, dolori e gioie, perdita e luce; un percorso autobiografico esorcizzato da liriche e musiche, ma al tempo stesso fissato, cristallizzato, eternato da quella stessa alchimia sonora che sta alla loro base. È un circolo vizioso da cui risulta difficile affrancarsi camminando sulla strada aspra e dura tracciata in modo netto tra le pieghe di HUMAN MACHINE. Poco più di un anno è passato dal precedente TRAGIC TECHNOLOGY INC., buona fusione di ritmi al fulmicotone processati elettronicamente mescolando suoni new wave e dark all'electro-rock, che seppur restando sempre in un ambito di nicchia, aveva fatto circolare il nome dei NODe presso un pubblico più vasto, ma sembra trascorsa una eternità. Via le facili concessioni a tentazioni dance; lontani gli ammiccamenti più smaccatamente sintetico-commerciali. Cresce viceversa la maturità di un combo che, sotto una patina brillante si rivela sempre più oscuro e cupo nelle intenzioni e nei testi (Dark Shadows (I Feed The Wolves)), tecnicamente preparato e giustamente ambizioso, una volta ancora alla ricerca della famosa quadratura del cerchio prima del grande passo. Si arricchisce non tanto la tavolozza dei colori, ma certamente quella della gradazione di tonalità (A God For Humans), decisiva per descrivere anche visivamente il nuovo corso e completarne l'immaginario evocato. Piace ad esempio la riuscita collaborazione con voci femminili che stemperano l'atmosfera (The Shift) e intelligente risulta la volontà di equilibrare la pesantezza degli argomenti trattati con un suono all'apparenza spensierato, capace di macinare chilometri e rendere istintivamente fruibile gli episodi liricamente più neri come il singolo apripista Soulsucker. La mente corre ai Chemical Brothers, ma anche al David Bowie sperimentale di metà anni '90 a confronto con il Gabriel ostico di inizio millennio. Ma i rimandi a Massive Attack e Subsonica deviano subito l'attenzione su terreni di ampia fruizione, indice di una dimensione internazionale che i Not Ordinary Dead certamente possiedono, ma che rivendica al contempo tutti i crismi del proprio Paese natale. È l'introspezione iniettata scientemente nel suono che accelera la dignità di un progetto già pronto a cambiare nuovamente pelle al prossimo giro di ruota. Una competizione che è scelta continua, crossover globale tra abilità e resistenza, senza troppi arzigogoli o ripensamenti. Perché accontentarsi è un'arte e la sua via porta alla felicità. Best Is Coming Next.

martedì 3 febbraio 2015

VIRALE

VIRALE
Il Vuoto Elettrico
- DreaminGorilla Records / Banksville Records - 2015

Figlio illegittimo di un movimento anni '90 in cui hard-core, noise e post rock trovavano finalmente anche in Italia una via di riconoscimento e accettazione all'indomani della rivoluzione grunge messa in atto oltreoceano da NEVERMIND, il quintetto orobico-bresciano de Il Vuoto Elettrico arriva al disco d'esordio sventolando trionfante la bandiera di una disgregazione umana nero pece in cui tutte le tensioni accumulate nella quotidianità dall'individuo schiumano rabbia repressa eppure sempre, immancabilmente, vitale. Ciò che un tempo fu anticonvenzionale oggi rischia però di essere semplicemente anacronistico, compresso tra un manierismo nocivo per la propria reputazione e una credibilità ridimensionata perché vissuta solo di riflesso. VIRALE ha dunque il compito di fugare tutti i dubbi a riguardo recuperando massicce dosi di elettricità ed angoscia, esorcizzando una sorta di rassegnazione e disfattismo, e lasciandosi avvolgere da una ossessiva ostilità tragica che possa andare oltre i limiti della band. Senza compromessi. Per farlo, la mossa più intelligente, ma anche più rischiosa, è stata quella di assoldare il produttore di mille battaglie, quel Fabio Magistrali che i cultori di un certo sound o, per meglio dire, di una certa attitudine non hanno affatto dimenticato, e che, seppur oggi più defilato di allora, è sempre attento a non lasciarsi sfuggire quegli ululati dall'underground mai realmente sopiti. Trovarsi in sinergica comprensione con questo atipico magister ha permesso a Il Vuoto Elettrico di scavare a fondo dentro sé e di sviluppare la propria idea di disarmonica insofferenza veicolando una paura condivisibile all'esterno; senza alcun tipo di protezione, perché virale è il disagio ed esso è connaturato all'indole umana anche nel nuovo millennio dove ha trovato terreno fertile, rinnovandosi e sviluppando nuove forme di aggressiva stratificazione, invincibile idra dalle cento teste, mozzata una delle quali se ne genera automaticamente l'esatto doppio. Una claustrofobia che la musica amplifica e distorce senza lasciare scampo di salvezza alcuno, incapace di far trovare una via di uscita all'essere umano afflitto da angosce e indifferenza. Certo, Paolo Topa non è Federico Ciappini e la sua narrativa non sarà mai tanto visionaria e destabilizzante come quella maggiormente parca e minuta dell'antico frontman dei Six Minute War Madness (con cui Il Vuoto Elettrico paga costantemente un debito enorme fin dalla scelta del proprio moniker), ma è pur vero che nel suo declamare, urlare e schiantare parole le pietre di paragone si chiamano Emidio Clementi (Arianna Tace) e Cristiano Godano (Il Ruolo Del Perdono). VIRALE viaggia precario e roboante come un motore a scoppio sorretto da tensioni strazianti (Labirinto Di Cani), acidi attriti dissonanti (Asso Di Spade) e pericolose esplosioni di eruttante energia, senza schemi vincolanti (Il Tuo Ego, Il Mio Crollo) o facili compiacimenti (Emilia Paranoica). Guarda al passato, ma racconta un presente, intimo e personale, nascosto alla vista sotto i nostri letti, ricettacoli di inesauribili peccati e confessioni. Bisogna solo registrare il suono della batteria per garantire una profondità oggi ancora superficiale. Accumulando polvere si può creare una montagna.

domenica 1 febbraio 2015

PAURA

PAURA
Felpa
- Sussidiaria - 2015

La nebulosa verso cui ci stiamo dirigendo è sempre più vicina. Un gorgo, un vortice sempre più lento, ma inesorabile ci attira verso sé. Non c'è alcun tipo di panico. Solo sospensione. Sconfinata e immateriale. Come il nostro corpo che fluttua nello spazio senza riconoscere i suoi stessi limiti fisici. Ogni tanto, mentre procediamo nel nostro viaggio dal Buio verso quella Luce d'improvviso sempre più forte, ci si sforza di ricordarli tutti: il medico, l'insegnante, la vicina di casa e il suo gatto. Il molestatore ubriaco, la fotografa, il ragazzino che non ti riconosce e chiede se hai da accendere; il divo caduto in disgrazia, la starlette della domenica scesa dal SUV a due passi dal corso del centro cittadino. E ancora: la corriera, il palco, la voce afona del cantante, il free drink e la febbre. In molti credono che i luoghi siano spesso fatti da persone. Il resto è semplicemente cornice. Come la finestra dalla quale un tizio, all'apparenza sui trentacinque anni di età, con la barba e gli occhiali sta rimirando, assorto in chissà quali pensieri, il panorama invernale: i tetti innevati, le orme ancora fresche lasciate da una coppia lungo la strada, il cardellino che sfida il freddo e si mette a beccare sull'asfalto. Io e te invece non stiamo pensando a niente, ma tutto ci si para davanti senza soluzione di continuità, come un affollato carosello di auto per la vittoria dei Mondiali di calcio del 1982. È solo allora che realizzi come il distacco sia una faccenda assolutamente privata che non richiede particolari appoggi, ma semplicemente tempo e pazienza. È un negativo fotografico che domanda di essere sviluppato lentamente per assaporare ogni singola posa, ogni minimo particolare, ogni piccola concessione a quegli istanti di felicità che ci hanno allietato subito dopo una caduta. Anche in questa ovattata camera oscura extraterrestre i gesti sono meccanicamente gli stessi. Nessuna richiesta di consiglio a nessuno. Una porta dietro cui esorcizzare il dolore - isolati dal mondo - non servirà a rasserenarci completamente. Non è questione di spessore. È la necessità di pace e calma che urla silenziosa dentro noi per impedirci di cadere nel baratro della depressione. Solo con questa vitale condanna dobbiamo imparare a convivere. "Ci sono ferite di striscio / che nessuno può guarire / e uomini che muoiono a ottant'anni / di coltellate prese in gioventù. / Non c'è regola." Potrebbero essere i suoni adatti per musicare i versi di Giovanni Raboni quelli di Daniele Carretti, Felpa per gli amici, al secondo lavoro solista anticipato dal siderale singolo Inverno insieme a una Rimmel degregoriana fatta propria e rinnovata. Invece PAURA è un tuffo carpiato, ritornato, con doppio avvitamento nel vuoto cosmico. Con tutto il tempo possibile per rallentare la caduta e farsi avvolgere da un pensiero che sa di infinito. Un nuovo abbandono all'interno di note, suoni e parole profonde e dolenti. Il riflesso di un pensiero; la certezza di una condizione.