mercoledì 4 febbraio 2015

HUMAN MACHINE

HUMAN MACHINE
NODe
-  MyPlace Records - 2014

La macchina umana a cui i Not Ordinary Dead hanno deciso di rivolgere la propria attenzione per ordire le trame del loro nuovo album non è il prototipo del superuomo di nietzschiana fama né un semplice umanoide tutto ferro ed ingranaggi destinato ad una lenta e futura rottamazione. Il concepimento di questo ibrido musicale che nota dopo nota si manifesta apertamente in tutta la sua umana corruttibilità nasce in realtà da un periodo assai tormentato e complesso di Johnny Lubvic, membro fondatore insieme all'altrettanto imprescindibile Kamoto San di quello che a suo tempo fu il nucleo originario della band. Il profondo disagio interiore maturato dal vocalist campano si consuma febbrile nella rapida sequenza di brani che governano i rapporti tra ansie e speranza, dolori e gioie, perdita e luce; un percorso autobiografico esorcizzato da liriche e musiche, ma al tempo stesso fissato, cristallizzato, eternato da quella stessa alchimia sonora che sta alla loro base. È un circolo vizioso da cui risulta difficile affrancarsi camminando sulla strada aspra e dura tracciata in modo netto tra le pieghe di HUMAN MACHINE. Poco più di un anno è passato dal precedente TRAGIC TECHNOLOGY INC., buona fusione di ritmi al fulmicotone processati elettronicamente mescolando suoni new wave e dark all'electro-rock, che seppur restando sempre in un ambito di nicchia, aveva fatto circolare il nome dei NODe presso un pubblico più vasto, ma sembra trascorsa una eternità. Via le facili concessioni a tentazioni dance; lontani gli ammiccamenti più smaccatamente sintetico-commerciali. Cresce viceversa la maturità di un combo che, sotto una patina brillante si rivela sempre più oscuro e cupo nelle intenzioni e nei testi (Dark Shadows (I Feed The Wolves)), tecnicamente preparato e giustamente ambizioso, una volta ancora alla ricerca della famosa quadratura del cerchio prima del grande passo. Si arricchisce non tanto la tavolozza dei colori, ma certamente quella della gradazione di tonalità (A God For Humans), decisiva per descrivere anche visivamente il nuovo corso e completarne l'immaginario evocato. Piace ad esempio la riuscita collaborazione con voci femminili che stemperano l'atmosfera (The Shift) e intelligente risulta la volontà di equilibrare la pesantezza degli argomenti trattati con un suono all'apparenza spensierato, capace di macinare chilometri e rendere istintivamente fruibile gli episodi liricamente più neri come il singolo apripista Soulsucker. La mente corre ai Chemical Brothers, ma anche al David Bowie sperimentale di metà anni '90 a confronto con il Gabriel ostico di inizio millennio. Ma i rimandi a Massive Attack e Subsonica deviano subito l'attenzione su terreni di ampia fruizione, indice di una dimensione internazionale che i Not Ordinary Dead certamente possiedono, ma che rivendica al contempo tutti i crismi del proprio Paese natale. È l'introspezione iniettata scientemente nel suono che accelera la dignità di un progetto già pronto a cambiare nuovamente pelle al prossimo giro di ruota. Una competizione che è scelta continua, crossover globale tra abilità e resistenza, senza troppi arzigogoli o ripensamenti. Perché accontentarsi è un'arte e la sua via porta alla felicità. Best Is Coming Next.

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