mercoledì 30 luglio 2014

I'M WALKING ALONE

I'M WALKING ALONE
Gabriele Bombardini
- autoproduzione - 2014

L'approccio rilassato di I'M WALKING ALONE non tragga in inganno. Nell'esordio solista di Gabriele Bombardini, talentuoso chitarrista ravennate più volte al servizio di numerosi big della canzone italiana, ci sono molta più inquietudine e struggimento di quanto si potrebbe pensare. La pacata riflessività di una chitarra elettrica spesso ai limiti della fusion rivela in realtà un sottile velo di malinconia e abbandono che va a cozzare contro l'idea di una accomodante appagamento mentale dettato dalle leggiadre melodie prodotte. Se è vero come è vero che la sei corde di Bombardini è la protagonista assoluta di questo cd strumentale (solo in Children compaiono i sintetizzatori analogici di Matteo Scaioli), vale altrettanto la pena sottolineare come la dozzina abbondante di tracce che compongono il platter sia una piacevole opportunità anche per chi non mastica abitualmente questi territori di accostarsi, curioso, ad un materia talmente libera da vincoli e parametri di giudizio assoluto senza il timore reverenziale dovuto ai guitar hero più celebrati. La raffinatezza con cui sono eseguiti episodi tra loro differenti come l'ipnotica Morgana o l'avventurosa Sailing, caratterizzata da un ipotetico cullare costante delle onde, è motivo di innegabile talento da parte del Nostro che, messe da parti per un istante le collaborazioni più disparate, si ritaglia uno spazio tutto per sé: quella camminata in solitaria citata nel titolo del cd in grado di rivelare, un po' per gioco un po' per naturale necessità, umori e sensazioni inespresse. "La sfida - ricorda l'occhialuto chitarrista già al fianco di Adriano Celentano e John De Leo - è stata quella di chiudermi in studio di registrazione e vedere cosa poteva nascere partendo non da brani già strutturati, ma da semplici frammenti musicali e da una ricerca sul suono". Il risultato è una caleidoscopica soggettiva in grado di coprire più dinamiche sonore come se si trattasse di abbracciare con la musica la maggior parte dei colori dello spettro visivo. Un'esperienza terapeutica che è un aperto confronto con sé stessi e la propria anima, capace di liberare, vuotare il proprio io più nascosto in un viaggio a tappe di cui ancora non è stata individuata la meta finale. E se toni malinconici (Is It Cool?) e sostanzialmente algidi (Psychedelic Snow, Shine On Part IV) paiono prevalere assecondando la disarmante e solitaria essenzialità riprodotta in copertina, è pur vero che una condizione di totale indipendenza e autonomia come quella evocata non sopporterebbe emozioni troppo forti o accese. Così, ecco succedersi con un approccio minimalista altri momenti di raccoglimento e meditazione (Idea!, Peace And Love (?), Cyclic Experiment) in grado di sottolineare e tramandare a chi vorrà ascoltare la traccia del proprio passaggio; impronte leggere, color pastello, che si perdono nella risacca marina.  

lunedì 28 luglio 2014

OVERTONES - ELECTRONIC RESEARCH IN NATURAL HARMONICS

OVERTONES - ELECTRONIC RESEARCH IN NATURAL HARMONICS
Mario Conte
- Zoff82 - 2014

Quando la recherche di proustiana memoria modifica i propri propositi e sposta il proprio baricentro verso nuovi interessi e orizzonti spazio-temporali, i risultati possono essere imprevedibili e impensati come dimostra il cangiante flusso sonoro di OVERTONES. La nebulosa di suono che apre l'opera prima di Mario Conte pulsa infatti ritmicamente sulle inconsuete note del sorprendente cupa cupa. Oggetto niente affatto misterioso in terra salentina e lucana, il particolare tamburo a frizione la cui origine si perde nella notte dei tempi viene riscoperto dall'ingegnoso sperimentatore del suono, già a fianco della corregionale Meg, e inserito in un contesto musicale fatto di meccaniche ed elettronica all'apparenza totalmente estraneo. Solo dopo un ascolto attento il lavoro prodotto da Conte - in collaborazione con l'ensemble pugliese In Cupa Trance dell'imprescindibile Pino Basile - rivelerà una comunanza di intenti capace di condensare in un lasso di tempo infinitamente piccolo rispetto all'eternità l'ossessività delle forme ritmiche primordiali con la calda freddezza dei macchinari digitali e analogici. Harmonic Field #1 e la susseguente Harmonic Field #2,  caratterizzata da un disturbante ronzio circolare che sembra inghiottire e digerire ogni altra forma di vita, diventano così le chiavi di accesso ad un mondo sonoro estremamente liquido eppure al contempo totalmente dedito alla concretezza della terra, attraverso la compenetrazione produttiva fra ancestrale e moderno. È un dato di fatto da cui si originano in un secondo tempo tutti gli altri movimenti contenuti in questo piccolo bignami di armoniche naturali registrato in diverse parti del continente europeo. Una reticolata impalcatura liquida pronta a sostenere nuove, mobili, forme di suono plasmate più dalla mente che dai macchinari messi a disposizione dal progresso tecnologico. Una continua riflessione sulla loro mutevole condizione cangiante che, alla chimica e alla sintesi operata da altri soggetti culturali, ha preferito riscoprire le origini della terra, in una commistione fra passato e futuro originante il presente. Quello stesso presente alla base dello sperimentale progetto Phone Jobs, un collettivo di musicisti dedito al recupero di suoni elettronici prodotti da oggetti mobili come cellulari e i-phone ora riciclati per produrre musica. Dove porterà tutto questo è una incognita altrettanto mutevole e cangiante, soggetta a dinamismi sconosciuti e imprevedibilità. Per intanto guardando al tempo e al suo misterioso svolgersi, ci gustiamo il suono roboante, naturalmente straniante eppure così inconsapevolmente noto di Modern Country Side che nella registrazione ambientale libera le sensazioni di un viaggio trascendentale nel suo necessario passaggio fra campi materiali e mondi di pura energia. Una dimensione ultraterrena che solo il recupero delle nostre origini è ancora in grado di esplorare. Oggi come allora.

mercoledì 23 luglio 2014

BSB3

BSB3
Bud Spencer Blues Explosion
- 42 Records - 2014

Il micidiale uno-due assestato con lo scattante singolo Duel, poderoso hard blues elettrico della miglior fattura, e la vorticosa Mama, dilatata e nervosa sarabanda di riffoni muscolari, annunciano alla grande il graffiante ritorno in sala di incisione dei Bud Spencer Blues Explosion. Dopo circa tre anni di silenzio dal precedente album in studio DO IT, ma pur sempre a soli ventiquattro mesi di distanza dal prezioso dvd DO IT YOURSELF - NEL GIORNO DEL SIGNORE che dei BSBE rivelava il lato più acustico sviscerato di lì a poco da Adriano Viterbini nel suo acclamato album solista GOLD FOIL, il duo romano che tanto piace a pubblico e critica sembra aver fatto centro una volta ancora. Offrendo in pasto una formidabile sequenza di camaleontiche rock songs, monumentali e dinamiche insieme, i Bud Spencer hanno saputo presto ritagliarsi uno spazio sempre maggiore all'interno del panorama rock italiano grazie soprattutto a indiavolati live set infuocati e alle indubbie doti tecniche dei musicisti coinvolti. Ora però, forse per la prima volta nella loro carriera, ci troviamo di fronte ad un album più ragionato rispetto al passato recente, strutturato in maniera tale da non lasciar nulla al caso anche e soprattutto in vista della sua trasposizione on stage. Attenzione, non stiamo affermando di esserci ritrovati tra le mani un lavoro studiato a tavolino per ingraziarsi chissà quali nuove fette di pubblico o di addetti ai lavori. Semplicemente in BSB3 si respira un'aura sempre intrisa di zolfo, ma meno lasciata al caso e all'improvvisazione, novità estrema per una band, anzi un duo che vive di queste variabili, capace dunque di esprimere una metodologia lavorativa diversa, più consapevole e matura. Evidentemente una buona parte di merito è giusto tributarla a Giacomo Fiorenza, collaboratore di lungo corso del miglior Moltheni nonché fondatore con Emiliano Colasanti dell'etichetta discografica 42 Records per la quale il nuovo album è stato inciso; tuttavia non ci sarebbe potuto essere un confronto costruttivo e produttivo tra le parti se sull'altro versante della "barricata" l'alchimia fra il già citato Viterbini e il sodale Cesare Petulicchio non avesse trovato il giusto punto di incontro. Così, accanto alle classiche, potenti rasoiate di rock blues inferte con proverbiale precisione chirurgica, emergono dal controllato caos sonoro atmosfere inedite come il morriconiano crocicchio musicale che guarda all'Africa e sviluppato in Camion; oppure registri più rilassati, ma non meno coinvolgenti come invece attestato dalla malinconica Troppo Tardi. E scalpitano, al solito urgenti e dinamiche, le trascinanti scorribande impregnate di epicità, talmente potenti da far impallidire non solo i Black Keys, a cui i BSBE forse un po' troppo spesso vengono superficialmente paragonati, ma anche l'irrequieto Andrew Stockdale che attraverso una manciata di album con i suoi Wolfmother ha saputo riaccendere i riflettori su un suono sporco e verace mutuato dai primi Led Zeppelin. I quali sono inglobati nell'articolata No Soul insieme a Black Sabbath e Hendrix esattamente come accade in Hey Man, ma questa volta con i Nirvana che incontrano i Verdena che incappano neanche troppo accidentalmente nei Rolling Stones a loro volta a spasso con i Negrita (Miracoli). La musica insomma si insinua vorticosa nell'aria e regala anche a questo nuovo capitolo discografico della band capitolina ardite sintesi che ne riaffermano il valore e la sostanziale maturità. L'ennesimo capitolo compiuto di una storia sempre più avvincente e sudata, nata sui palchi di periferia un po' per scherzo, ma capace di evolversi anno dopo anno in una miscela personale unica e riconoscibile, sviluppatasi tra il miraggio del sogno americano e la concretezza della fatica quotidiana. Cercami qui, vicino alle cose semplici mi troverai.

martedì 22 luglio 2014

LA PARTE MIGLIORE

LA PARTE MIGLIORE
Sabrina Napoleone
- Orange Home Records - 2014

Sabrina Napoleone sarebbe senz'altro piaciuta al Consorzio Produttori Indipendenti. Un disco importante come LA PARTE MIGLIORE emana una impressionante forza evocativa, costante  e umorale, che avrebbe sicuramente trovato spazio sul taccuino della premiata ditta Ferretti-Zamboni. Per personalità e intuizioni espresse la cantautrice genovese è una fresca ventata di ingegnosità architettonica nella costruzione della Canzone. Abile infatti a muoversi tra le sette note, Sabrina sa sfruttare il campionario inesauribile messo a disposizione dalla lingua italiana per licenziare atmosfere piuttosto uniche - e il più delle volte alienanti - mai riconducibili ad un solo mondo sonoro, supportate da una naturale propensione alla continua esplorazione del linguaggio e delle sonorità che vanno a pescare tanto dalla tradizione consolidata quanto dalle sfide interculturali aperte dalla globalizzazione. Fatto tesoro anche dei propri trascorsi teatrali, ponendo in costante equilibrio musica e testi, il percorso dell'ex Aut-Aut traccia una lunga strada che pare attraversare diverse epoche senza mai snaturare l'insita contemporaneità che una vita umana contiene. Ci colpisce, chiaroveggente e altera, fin dalle prime note del Fortunello petroliniano rivisitato e corretto nella costruzione quasi gotica di Fire per poi rilasciare, niente affatto sfuggente, la lezione imparata dalle grandi signore della musica. Ma non ci sono numi tutelari: solo grande rispetto e tanta applicazione affinché la potenza del momento creativo fuoriesca sempre diretta, focalizzando l'attenzione ora su una lirica ora su un suono. Al fascino ambiguo di molte sacerdotesse rock Sabrina preferisce una soluzione che sia sempre di impatto. E mai banale. Se all'irruenza di Medusa è facile infatti accostare un tonante basso "maroccoliano" capace di centralizzare l'ascolto, è in È Primavera che si compenetrano canzone popolare occidentale e ritmi arabeggianti al fine di ornare con adeguata misura un testo di durissima attualità politica scevro da retorica e omissis in cui addirittura la Mattinata Fiorentina di Alberto Rabagliati è il sorprendente pretesto per un arguto e stridente attacco al malcostume  e al potere. Politico o ancora meglio, socialmente impegnato è del resto tutto LA PARTE MIGLIORE; anche nei suoi momenti meno sferzanti infatti il cd non teme censure né cerca facili consolazioni attraverso il ricorso a frasi fatte e rime scontate. Insomnia, sghemba e violenta, celebra nuovamente alla luce del sole una nuova liturgia, questa volta fra sangue e piombo, inducendo ad una marcata riflessione tesa a smuovere le coscienze. Ma c'è spazio pure per quell'oscurità luciferina che forse solo Rita "Lilith" Oberti ha saputo davvero cantare con i Not Moving prima e i Sinnersaints poi. Essa emerge sulfurea a colloquio con L'Indovino Islandese e nel luttuoso cantato della classicheggiante Epoché qualche istante prima di evaporare senza quasi lasciar traccia. Grinta, carattere e forti contrasti. Di tutto ciò vive l'esordio solista della Napoleone. Una donna sola a capo di un grande disco, altisonante come il cognome della sua interprete. Una autentica perla da fare propria e conservare gelosamente fino al prossimo appuntamento. Del resto, una volta ancora, garantisce Orange Home.

mercoledì 16 luglio 2014

LUME

LUME
Lume
- Blinde Proteus - 2014

Creatura multiforme questo Lume. Un addomesticato cerbero a tre teste che abita il sottobosco dell'indie rock tra psichedelia e onirismo pop. Nato dall'incontro fra la bassista Anna Carazzai, una vita con i Love in Elevator di cui i Lume potenziano la proposta, e Andrea Abbrescia (altro collaboratore dei LiE) in combutta con il martellante Franz Valente preso in prestito nelle ore d'aria concesse da Il Teatro degli Orrori, l'estemporaneo trio lombardo-veneto ha sviluppato relativamente presto un set di brani che deve aver dato fin da subito una qualche parvenza di potenziale autonomia dai lavori delle varie band di appartenenza. Approfondita la reale tenuta di questo e del materiale proposto in un secondo momento da Valente ci si è accorti di come tutto filasse per il verso giusto senza alcuna forzatura o, peggio, imposizione esterna. Dunque, buona la prima. Nulla di rivoluzionario sia ben chiaro, ma molta energia e una buona dose di improvvisazione, che giocoforza conferiscono una netta percezione di libertà creativa, sono gli ingredienti principali per un pasto rapido eppure sostanzialmente completo. Una batteria "pestona" e un divertito mood da dancing padano da favolosi anni '60 bagnano il singolo Lucky Number, primo episodio su cui fanno capolino alcuni degli ospiti che via via si alterneranno in studio. Marco Fasolo, autore fra l'altro di missaggi e masterizzazione, è il chitarrista aggiunto che porta con sé il compagno di merende Liviano Mos, altro membro della famiglia allargata a comparire nel disco vista la sua militanza tanto negli Love in Elevator quanto nei Jennifer Gentle, alle tastiere. Quelle stesse che imperversano nella sakeesadiana Domino e che trovano un fertile terreno psichedelico in Bye Bye Baby dopo aver remiscelato la cupezza meccanica di Charge, notevole esempio di quello che i Lume potrebbero avere nuovamente in serbo in futuro se continuassero su una strada oscura e irta di asperità metalliche. Aero Bleach sembra omaggiare ciò che fecero i Nirvana con Aero Zeppelin, questa volta prendendo come riferimento iniziale proprio la band di Cobain e compenetrandone la distruttiva forza punk con una progressione rock ruvida e caotica; di contro c'è Elastica, la più melodica delle tracce e forse la meno riuscita, statica e monocorde. Caratteristica abbastanza peculiare del lavoro è il flusso senza soluzione di continuità che lega quasi sempre a coppie di due alcune canzoni, come a voler porre l'ascoltatore di fronte a un intreccio perpetuo tra suoni aspri, distorti, esagitati e paesaggi sonori fatti di lande e territori illuminati da una tenue luce mattutina. E mentre la predominanza delle vocals è a carico di Anna (potenziata dai cori di Elisa Mezzanotte nella piacevole Bad Daughter ed estremamente sicura in Sparks Were Flying)  piace molto l'atmosfera di cupezza che il cantato di Valente sa conferire nei momenti migliori del cd, corrompendo e sporcando gli spiritelli umbratili che sembrano di continuo essere evocati dalle ipnotiche note lambite dalla Carazzai. La sensazione che Lume (la band e il cd) sia però un progetto estemporaneo è costante; che possa esaurirsi nell'arco di un disco o due oppure che tenda ad evolversi per divenire altro ancora poco importa. Detto questo è altrettanto vero che avendo la possibilità, e soprattutto la volontà, di dar vita a un progetto parallelo fatto anche per premiare la costanza di un'amicizia di lunga data è quanto di più duraturo possa esistere. Del resto ciascuno mostra quello che è anche dagli amici che ha.

venerdì 11 luglio 2014

WAVEFOLD

WAVEFOLD
The Whip Hand
- Rock Contest Records/Strawberry Records - 2014

Discepolo della new wave più scura e claustrofobica il giovanissimo trio pugliese dei Whip Hand ha incantato i giurati dell'edizione 2013 di Rock Contest, riunitisi lo scorso dicembre presso l'Auditorium Flog di Firenze, senza essersi prefissati alcun altro obiettivo che non fosse quello di suonare per il gusto di suonare, davanti certo ad un pubblico diverso rispetto al solito, ma proprio per questo magari anche più ricettivo. Di certo ugualmente attento. Per raggiungere questo scopo a Toni, Gianni e Francesco sono bastate una batteria minimale ridotta all'osso, una Fender Jaguar come molte ce ne sono in giro e un basso senza troppe pretese. Queste le armi impugnate con apparente freddezza, ma consapevole dedizione fin dalle eliminatorie fiorentine. E questi gli strumenti con cui sono soliti esibirsi ancora oggi con estrema disinvoltura nei piccoli club di provincia. Alla base una naturale predisposizione all'impegno e al sacrificio, disillusi dai roboanti proclami dell'ormai sempre più collassante music biz e rassicurati dal riscontro degli addetti ai lavori. Collante necessario per la buona riuscita del progetto, di cui WAVEFOLD rappresenta un primo punto di arrivo concretizzatosi grazie ai meriti espressi sul palco della manifestazione organizzata e promossa da Controradio, è una comune eccitazione per tutto ciò che è musicalmente gravitato attorno all'orbita della Londra post punk a cavallo tra fine 70's e prima metà degli 80's e che già si era materializzato nel promettentissimo ep MIST autoprodotto inseguendo un sogno: emanciparsi da ogni tipo di limitazione contingente rivendicando le proprie passioni. Like there is no tomorrow. Andando così ad attingere a piene mani nelle serrate cavalcate dark wave e post punk di fine secolo, tra suggestioni emotive e pulsante rabbia interiore mutuate da Southern Death Cult, Cure, primi U2 e, giusto per restare in terra toscana Neon, Diaframma e primissimi Litfiba, i Whip Hand si tuffano nell'ipnotico vortice sonoro di feedback e marzialità a cui hanno sempre guardato. Qui coadiuvati dai sintetizzatori manovrati da Vincenzo Zingaro, nella stanza dei bottoni del mitico Larione 10 in compagnia di quel Sergio Salaorni che non ha certo bisogno di presentazioni, hanno modo di mettere in bella copia anche i pezzi più datati come A, Like Water e Arm per quello che risulta essere un propedeutico viaggio sonico nel passato iniziato in un'epoca ancora precedente e, data la sospensione evocata anche dalla brevità dei titoli scelti, senza tempo. Basso lineare sempre ben in vista (Try, Lost), voce cupa e ansiogena lievemente effettata e chitarra mai invadente, ma presente: la ricetta sembra semplice, ma non è affatto così scontata. Il pericolo di cadere in un inutile manierismo è infatti sempre dietro l'angolo; un rischio evitabile solo quando le coordinate non sono studiate a tavolino, quando non si teme la caduta e non si ragiona in quell'ottica. Una eventualità presto fugata quando in gioco si mettono forze diverse che necessariamente trovano un linguaggio comune, all'apparenza anche meccanico, con cui comunicare e trasmettere emozioni. Basta seguire la strada e prima o poi si fa il giro del mondo.

mercoledì 9 luglio 2014

DISGUISE OF THE SPECIES

DISGUISE OF THE SPECIES
Glass Cosmos
- autoproduzione - 2014

Non c'è che dire. Alta qualità per i Glass Cosmos. Fin dalla copertina sembra abbastanza evidente che nulla sia stato lasciato al caso dal combo nato sulle ceneri dei Cheap Mondays. Quando mai trovi infatti una band che al disco d'esordio decide di affidarsi ad un quadro di Magritte per veicolare anche visivamente la propria musica? Rielaborato graficamente dall'amico Alessio Caglioni, bassista dei corregionali Last Fight, il pesce-sirena tratto da L'illusione collettiva è, nelle intenzioni della band bergamasca, lo specchio dei tempi in cui si riflette l'atteggiamento di molti giovani artisti, o più verosimilmente presunti tali, che pur di ottenere una fugace visibilità nell'immediato e, come si suole dire, "ballare anche una sola estate", rinunciano ben presto ad approfondire e sviluppare il lavoro sulle proprie abilità ricercando nel rintronante tepore del calderone mediatico il consenso effimero, l'applauso mondano, l'ossigeno corrotto per restare a galla un istante ancora prima di venire risucchiati dal gorgo dell'oblio permanente. Cambiare per non cambiare mai. Una metafora del nostro quotidiano, presto estendibile a molte realtà dell'agire umano. A questa mancanza di progettualità a lunga gittata rispondono con tutte le loro forze la voce di Frankie Bianchi, la chitarra di Florian Hoxha e il basso di Francesco Arciprete che, in compagnia dell'ultimo arrivato Matteo Belloli alla batteria, si prodigano nella realizzazione di un lavoro potente e spumeggiante insieme, per nulla facile alle lusinghe superficiali e al consenso temporaneo, ma piuttosto ben radicato nella appartenenza ad un contesto di spessore, lontano dalle mode del momento e che mal si coniuga con le trattazioni sbrigative. Con una eterogeneità di fondo che in questi casi non guasta mai, l'esplosione di energia rilasciata dalla sfavillante Milestone ci fa capire che i tempi della passata esperienza musicale sono pressoché finiti - fatta eccezione per il retaggio indie rock molto British di A Slim Pixie, Thin And Forlorn, titolo preso in prestito da una lirica contenuta nell'oscura Crowds dei Bauhaus - mentre si staglia all'orizzonte una riuscita miscela di hard (It Won't Be Long Till Dawn, Redemption Is A Pathway To Nihilism) e vorticosa "new noise wave" (l'introspettiva O Tempora, O Mores, il singolo Chrono) consolidata da ariose melodie pop che toccano il loro vertice nell'utopica Libreville e nella visionaria New Shores. Una naturale attitudine emo, condita da fiammate post punk, completa (e distorce) poi il tutto. Con cognizione di causa e determinazione. Se davvero crescere significa mettersi in discussione, accettare critiche, scambiarsi idee, confrontarsi i Glass Cosmos fissano con DISGUISE OF THE SPECIES la pietra angolare su cui poggiare ogni successiva mossa alla ricerca di quella espressività sincera che rifugge maschere e camuffamenti, rivela passioni oscure, ma ardenti e libera l'individuo. Il sacro fuoco dell'Arte insomma. Il principio che espone il fine. Per essere e non per apparire.

martedì 8 luglio 2014

da COSTELLAZIONI

I DESTINI GENERALI
- Le Luci della Centrale Elettrica - 2014
 

 
Regia e animazione di Michele Bernardi
Danzatrice: Alice Guazzotti

venerdì 4 luglio 2014

ALIBI

ALIBI
GBU
- autoproduzione - 2014

A raccontare le vicissitudini degli GBU non basterebbe probabilmente un libro. Nati nell'inverno del 2010 per volontà del cantante-chitarrista Luca Iaconissi, negli anni a venire sarebbero ben presto andati incontro a costanti cambi di organico che tuttavia non ne avrebbero modificato eccessivamente la ragione sociale, ma semplicemente rallentato la produzione discografica. Frutto di quattro anni di lavoro ALIBI è il disco d'esordio per il trio friulano che dopo un primo omonimo ep conoscitivo, dal quale vengono qui riproposti in versione uploadata tre pezzi, riescono finalmente nell'intento di dare alle stampe un biglietto da visita più corposo ed articolato. Come tutte le prime volte che si rispettino anche questo lavoro è il raccolto in musica di quanto seminato in sala prove e on stage dalla giovane formazione tolmezzina in quasi un lustro di esistenza. E se la sua passione per i grandi classici del rock inglese anni '70 va a braccetto con l'ondata grunge di inizio anni '90 sarà opportuno prepararsi a una scarica di decibel smorzata da una certa psichedelia sghemba e anfetaminica mutuata da Jennifer Gentle e Syd Barrett. Se è vero poi che gli album capaci di mischiare troppi umori sono spesso pericolosi per chi li fa prima  ancora che per chi li ascolta, i GBU cercano di andare sul sicuro proponendo, tra citazioni più o meno scoperte, un suono robusto (la carica di Charlie è la risposta italiana a Go dei Perl Jam) che sappia unire sudore e mestiere, ma anche visceralità punk e un'ortodossia rock di spessore, nell'intento di scrivere una musica "che possa piacere tanto ad un pubblico non musicofilo quanto ad un ascoltatore più attento e musicalmente più colto, cercando di non chiudersi in uno schema e non fermarsi ad un genere". Così il Good, il Bad e l'Ugly si sono espressi nelle note di presentazione alla stampa allegate al cd. Per cui se alla foga sincopata di Blue fa da contraltare l'interludio strumentale concentrato nel minuto e mezzo di Feeble Flame, sospeso e oniricamente prog, non si resti spiazzati; è semplicemente la volontà dei tre ragazzi di dar vita ad un puzzle sonoro di gran prospettiva, supportato da tante idee e più adeguati mezzi rispetto al passato. Il bagaglio mostrato nell'abbondante mezz'ora che dà vita a questo ALIBI comprende poi tutto un repertorio di formule e suoni capaci di andare dal funky-garage della già nota Problems, con il suo ritornello che rimanda all'inquietante Alice Cooper di Black Juju, fino ai Red Hot Chili Peppers di BY THE WAY, ma con Frusciante al posto di Kiedis dietro al microfono, omaggiati in Cigarettes, passando per l'inatteso snippet metallico di una rallentata Can't Take My Eyes Off You contenuto nell'agitato caos stilistico di Circus. Arrivati a Last Will il pensiero corre rapido al camaleontico trasformismo che solo i Faith No More hanno saputo sviluppare in maniera credibile costruendo una gloriosa carriera a suon di dischi imprescindibili. Ora, non che i GBU siano i più diretti emuli di Patton e soci, ma senza dubbio la facilità con cui hanno saputo esprimersi li mette davanti ad un (piacevole) bivio: continuare nella patchanka sonora tout court continuando a sfornare idee e riff utili per costruire un birignao di qualità oppure convogliare le proprie energie e indirizzarsi verso un sound, riconoscibile e peculiare, che permetta loro di maturare e ritagliarsi uno spazio certo e sicuro. Bizzarri, ma con cervello.

giovedì 3 luglio 2014

VIA CRUCIS

VIA CRUCIS
Karenina
- autoproduzione - 2014

Buone notizie da Bergamo e dintorni. Tornano i Karenina con un album che supera di slancio i precedenti lavori proposti nel recente passato dopo l'abbandono dell'antico moniker Triste Colore Rosa. VIA CRUCIS è difatti il disco che mancava, quello meritevole di attenzione, senza dubbio il più completo e maturo, forse paradossalmente il più rischioso nella fin qui breve avventura discografica dei Nostri. Mandata a memoria la lezione degli Amor Fou, veicolata da una altrettanto efficace capacità di narrazione metropolitana, ma supportata da una maggior violenza sonora che qua e là riprende i Negramaro degli esordi, la tensione emotiva che pervade i solchi del vinile nelle nostre mani emerge in tutta la sua dinamica ed esplosiva concatenazione di eventi. Quella che ha portato ad avere in meno di un decennio un paese in recessione, con il 41% dei giovani disoccupati e un confusionario malcontento generale figlio di scelte sbagliate e diffuse incapacità gestionali. Questo è l'humus, il contesto in cui si consumano disturbanti e sanguinari fatti di cronaca provinciale (20 Novembre 2010, 26 febbraio 2011) dati smodatamente in pasto - proprio per lo sconcertante relativismo di cui sopra - a becere cagne del teleschermo che latrano concupiscenti tra una telepromozione e l'ennesimo ammiccamento senza vergogna. Si impone una riflessione. E una nuova esposizione. Se necessario addirittura il silenzio. Così deve aver pensato il quintetto di Francesco Bresciani che, partendo da tutto questo sistema feroce e disumano, è riuscito poco per volta a isolarsi dallo stagnante frastuono mediatico, continuativo ed esasperato, per mettere in musica un non facile spaccato di ordinaria follia. Con una presa di coscienza sociale che fa di VIA CRUCIS un album politico - niente affatto partitico - nella sua sensibilità più popolare, lontano da pretenziose mire giustizialiste, ma ampiamente "dentro" la vicenda raccontata con discrezione e rispetto. Romanzata come si conviene, tra rabbia e candore adolescenziale. Spiace che per trattare argomenti difficili ci si debba muovere una volta ancora autonomamente, ma a quanto pare anche solo evocare con un racconto la figura di una ragazzina massacrata suo malgrado a pochi metri da casa spaventa pure chi non ha responsabilità oggettive nei crimini eppure teme di dispiacere un'opinione pubblica abulica rilasciando un elaborato artistico che si avvale delle trovate grafico-espressive di Roberto Pesenti. Se non altro ciò che si perde a livello di mezzi e risorse promozionali si guadagna in termini di libertà, espressive e gestionali. Così i Karenina fanno di necessità virtù anche da un punto di vista commerciale decidendo di supportare le undici stazioni del disco con una formula certamente ragionata anche quando audace: quella del download gratuito su tutti i propri spazi web, con la vendita del vinile (con cd-r allegato) relegata ai soli concerti. Scelta controcorrente che meriterebbe non solo il plauso del pubblico, ma anche il suo sostegno concreto perché la visione globale offerta attraverso il rinnovamento di consolidate formule rock e un tormento narrativo da concept album è testimonianza di una vivace attività culturale non così scontata al giorno d'oggi. Una goccia di spazio infinito a portata di mano.

lunedì 30 giugno 2014

ROOTS & WINGS

ROOTS & WINGS
Stef Burns League
- UltraTempo Records - 2014

L'ha preparata bene. L'ha preparata come è spesso consuetudine negli Stati Uniti, con un mini tour di presentazione, anzi addirittura anticipatorio, per testare dal vivo le nuove canzoni che sarebbero successivamente confluite nel suo nuovo album. Stef Burns ha deciso di giocare sul fattore sorpresa con quella prima manciata di concerti tenuti a cavallo fra la fine di aprile e gli inizi di maggio dello scorso anno. Un blitz in piena regola in alcuni piccoli locali del nostro Paese supportato dagli storici collaboratori Juan Van Emmerloot e Fabio Valdemarin e in collaborazione con la new entry Roberto Tiranti al basso e seconda voce. Una importante tappa di avvicinamento all'uscita di ROOTS & WINGS per ingannare l'attesa e apportare con la sua League di fiducia eventuali piccole migliorie ai brani in lavorazione. Quello che abbiamo fra le mani è dunque il risultato di un lavoro meticoloso in cui nulla è lasciato al caso pur non perdendo un solo grammo di tutta quella freschezza e spontaneità che si richiede ad un album di puro rock. Sì, perché il terzo album solista di Burns è il suo primo a spingere davvero sull'accelleratore, aprendo il gas senza paura quando necessario e inanellando una serie di canzoni muscolari e potenti. Più omogeneo da questo punto di vista rispetto al precedente WORLD, UNIVERSE, INFINITY il nuovo cd possiede un appeal tutto americano come dimostra l'atmosfera da grandi spazi aperti, ma anche un po' working class hero a metà strada tra Jon Bon Jovi e Bruce Springsteen, di Miracle Days senza mai rinunciare a quel gusto per la melodia che crediamo esser stata ampiamente sviluppata dall'ex chitarrista di Alice Cooper nel corso degli anni passati accanto a Vasco Rossi e al suo team di lavoro. Il rilassato e contemplativo fraseggio di Home Again, ad esempio, è la prova provata di quanto detto come del resto rivelano anche la struttura tutta della dell'energetica opener - nonché primo singolo - What Doesn't Kill Us e le armonizzazioni vocali della collaudata Something Beautiful. Protagonista assoluta, seppure mai narcisa o troppo compiaciuta di sé, è evidentemente la Stratocaster di Burns che in questa continua compenetrazione tra grinta ed emotività mette allo scoperto un'anima passionale e pura, riflesso dei due mondi in cui l'uomo che la suona si specchia costantemente, respirando il profumo della madre patria USA (le radici) e lasciandosi cullare dal caldo abbraccio dell'Italia, insospettabile terra adottiva in cui sarebbe pure sbocciato l'Amore (le ali). Tastiere orchestrate à-la Mike Moran dall'amico Alberto Rocchetti nella strumentale - unico esempio in tal senso insieme all'ottima Us, sviluppata come rock blues e chiusa in chiave prog - Sky Angel, titolare di un suono chitarristico dilatato che qui accomuna Stef Burns al miglior Brian May e all'altro asso della sei corde Jeff Beck. E se nell'oscura title track sembra di ascoltare la voce di Bruce Kulick ai tempi del controverso CARNIVAL OF SOULS e del consigliatissimo BK3 - con una chitarra che si inchina di fronte al ricordo del Jimmy Page prima maniera, in Patience sgorga spontaneo tutta l'ammirazione per i Beatles di Stef "McCartney from Benicia". C'è ancora tempo per un po' di funky, per qualche power chords e qualche altra misurata svisata, giusto per completare una prova fresca e matura, non certo rivoluzionaria, ma in linea con il carattere del suo autore che negli amanti dell'hard rock classico e in tutti coloro i quali dalla musica ricercano un suono tagliente al servizio della forma canzone guarda con ricambiata stima e simpatia. Una summa degli ultimi 40 anni di rock sulle strade del nuovo millennio quando la comunicazione si è imposta come bisogno, ma l'ascolto è diventato arte.
 
un link al seguente post è presente qui: http://www.facebook.com/stefburnsofficial

giovedì 26 giugno 2014

TRE

TRE
Ismael
- autoproduzione - 2014

C'è davvero tanta tradizione cantautorale italiana nel terzo album degli emiliani Ismael. Mascherata. Ma c'è. Ben più di quello che si potrebbe pensare. Anche quando, come accaduto negli ultimi tempi, le chitarre si elettrificano attraverso jack e amplificatori emerge sempre preponderante la componente testuale attorno alla quale la musica si adegua di volta in volta bilanciando aspirazioni colte e dinamiche underground. La storia dell'attuale quintetto sassolese racconta un passato fatto di dubbi e ripartenze, supportato da un presente all'apparenza più definito che va ricalcando in musica la tenacia del fondatore Sandro Campani. Dopo l'utile esperienza con i Sycamore Trees, lo scrittore di Montefiorino si è gettato a capofitto in questa nuova avventura musicale, giunta ormai al decimo anno di vita e bagnata da un amore per il folk condiviso dalla sodale Barbara Morini, nel tentativo di dare alle stampe un lavoro finalmente completo su cui costruire un futuro solido in salsa padana. Molti i numi tutelari seguiti con deferenza oppure affiancati inconsapevolmente nello sviluppo delle nuove canzoni proposte; gianCarlo Onorato (l'ottima Le Tre) e il post punk su tutti; Cesare Basile (la scarnificata Canzone Del Cigno), ma anche Vasco Brondi con la sua urgenza espressiva degli anni Zero - a sua volta debitore del sempre carismatico Giovanni Lindo Ferretti - e il Capovilla de Il Teatro degli Orrori (Palinka) a pari merito, non poteva che essere così, dei primi, seminali, Marlene Kuntz. Ma mentre Godano e soci fin dai tempi del famigerato trittico CATARTICA-IL VILE-HO UCCISO PARANOIA avevano trovato presto la quadratura del cerchio per le loro composizioni alla pari di meteore come i milanesissimi Pila Weston di Carino E Sleale, gli Ismael ancora faticano a dare compiutezza in chiave rock alle loro comunque apprezzabili idee. Gli episodi migliori restano infatti le ballate acustiche e i brani meno irruenti (San Giovanni Di Querciola) che culminano in quello splendido strumentale che è l'evocativa Tema Di Irene. Paradigmatica in questo senso è la Canzone Del Bisonte, gucciniana fino al midollo, quasi uno scarto andato a suo tempo inspiegabilmente perduto e per fortuna riportato alla luce direttamente da FOLK BEAT N.1 e DUE ANNI DOPO, alla quale è facile affiancare il garage-beat del nuovo millennio di Se Non A Te. Piacciono le misurate inserzioni di sax a cura di Piwy Del Villano, musico già in passato al fianco del rambler modenese Luca Serio Bertolini, e il pianoforte del gradito ospite Emiliano Mazzoni, in procinto di rilasciare un disco solista nel corso dell'anno. Pregi su cui continuare a lavorare per trovare con il tempo l'amalgama necessaria per cucirsi addosso panni tagliati su misura e non semplicemente in maniera dozzinale. Ampi dunque i margini di miglioramento all'orizzonte anche se emergere in tempi brevi dall'affollato calderone posto sopra le braci del rock italico sembra, al momento, una possibilità ancora remota per il combo di Campani. Saprà nei fatti smentirci? L'augurio è un incoraggiamento.

mercoledì 25 giugno 2014

LA VIA DELLA SALUTE

LA VIA DELLA SALUTE
Fedora Saura
- Pulver & Asche Records - 2014 

Chissà cosa avrebbe pensato Giorgio Gaber dopo aver ascoltato le prime note di Peso/Mondo (Della Civiltà Civetta), brano di apertura al secondo lavoro dei ticinesi Fedora Saura, ma soprattutto dopo aver udito la voce di Marko Miladinovic, frontman dell'ensemble svizzero, così ben scandita e naturalmente modulata sulle frequenze di quella dell'indimenticato cantautore e performer milanese?! Seppur rivestite da sonorità diversamente cantautoriali, pronte a sconfinare nel rock più teatrale, le corde vocali del cantautore elvetico sono la prima fra le tante note liete che colpiscono l'ascoltatore incamminatosi di buona lena su LA VIA DELLA SALUTE. Saremo pronti alla rivoluzione annunciata e rivendicata da più parti? Certo, ma, ammoniscono neanche troppo sarcastici i Fedora Saura, solo scontrino alla mano, pedine consapevolmente colpevoli - ben più di quello che si è soliti pensare - di un sistema più grande di noi, capace di viziarci e coccolarci fino a ridurci all'immobilità, all'inazione, alla schiavitù dell'intelletto. Nel loro teatro-canzone contaminato da punk, jazz e lontanissimi echi di rock balcanico non c'è posto dunque per le mezze misure o qualsiasi altra forma di compromesso. Per raggiungere l'obiettivo dobbiamo essere realisti e concreti come lo sono loro, affabulanti scardinatori della parola e visionari equilibristi musicali, slegati da qualunque vincolo che non sia quello della reciproca attenzione all'altro. Senza scadere nell'anarchia, ma senza neppure restare legati al palo di dogmi e verità incontrovertibili, ecco compiersi "un pellegrinaggio - razionalista - tracciato dall'esperienza nel quotidiano, (...) lungo itinerari e sentieri gelosamente conservati nella memoria" recuperati dall'oblio in cui si vorrebbero far cadere. Non ci si senta perciò vittime di ingiustizie: bugiardi in fin dei conti lo siamo tutti. Soddisfatti e pure indolenti. E se Soma Pneumatico riecheggia nel suo lento sviluppo la lezione dei CCCP-Fedeli Alla Linea, Tenete Buoni Quei Cani partendo dalla caducità del divenire umano, torna ad indagare con accento e lucidità gaberiane in maniera quasi epicurea il tema della morte e di una dimensione ultraterrena di cui ora non ci è dato sapere e su cui nulla si può dire. Mentre solitamente sono le chitarre ad occuparsi di tessere trame sghembe e serrate, negli oltre 17 minuti lungo cui si dipana la progressione emancipata di Ex Europa Samba I II III (Est Euroba Sampa Xigareta) è piuttosto il pianoforte di Claudio Büchler a dare il là ai movimenti più arditi delle tre sezione che la compongono. Nell'ultima di queste, la viziosa Bagatella, il soprano serbo Sandra Ranisavljevic è il contro(in)canto magrebino-arabeggiante che colora di antiche corrispondenze il decadimento morale e il malcostume di una certa politica italiana prima di lasciare posto alla conclusiva Continentale (Artista Visiva), legata a doppio mandato con la canzone che la precede. Sempre sul filo dell'involontaria provocazione e con una radicalità di pensiero non comune. Chi dalla musica cerca una passiva immediatezza non troverà nei Fedora Saura alcuno stimolo per la propria ovattata curiosità; certamente saprà rivolgersi altrove per continuare a stordirsi di metadone culturale. Chi, invece, vorrà mettersi in discussione una volta ancora con il proprio gusto innato all'apertura e al confronto beh, qua troverà pane per i suoi denti. Perché in fin dei conti fare il proprio dovere è una questione di principio che si fa per sé stessi e per la propria dignità. Non certo per il plauso finale.

martedì 24 giugno 2014

PICCOLO ATLANTE DELLE COSTELLAZIONI ESTINTE

PICCOLO ATLANTE DELLE COSTELLAZIONI ESTINTE
Patrizio Fariselli
- Sony Classical - 2014

Quante volte ci è capitato di guardare il cielo in una notte d'estate e osservare nella quiete della sera le miriadi di stelle che tempestano la volta celeste riflettendo sull'essenza della vita e del cosmo o magari, molto più semplicemente, improvvisandoci "astronomi" in erba nel tentativo di identificare qualche costellazione diversa dalla classica Orsa Maggiora (con corrispettivo Piccolo Carro al seguito) mettendo a frutto le nozioni imparate distrattamente a scuola!? Quante occasioni abbiamo avuto fino ad oggi - e quante ne avremo ancora - per scrutare al di là della nostra atmosfera, con occhi ben aperti oltre quella finestra spalancata sull'infinito che perennemente ci contiene? Innumerevoli, come innumerevoli sono i nostri pensieri a riguardo, intimi e personalissimi, così semplici da condividere, ma al tempo stesso di non facile spiegazione. Affascinato come molti dai racconti legati all'astronomia e dai miti ad essa legati, Patrizio Fariselli dedica gran parte della sua ultima fatica discografica in solitaria ad una realtà dimenticata della cartografia celeste: le costellazioni obsolete, quell'insieme di assembramenti prospettici di stelle non ufficialmente riconosciuti dall'Unione Astronomica Internazionale a partire dal 1922 e per questo oggi non più in uso. Una suite articolata in dodici momenti per i quali ad ogni improvvisazione al pianoforte, coadiuvata da un ring modulator, corrisponde una di queste costellazioni estinte. Il criterio di associazione è uno solo: la sensibilità dello stesso Fariselli il quale, suggestionato da alcune di quelle visioni che per un motivo o per l'altro hanno "fallito", restituisce innanzitutto a sé stesso e in seconda battuta all'ascoltatore una contemplazione personalissima della volta celeste apocrifa, costruendo nuove prospettive come quelle alla base delle costellazioni stesse. In questo modo, anche nell'oscurità di una stanza, l'uomo tornerà a fissare il cielo con gli occhi della mente, orientandosi e perdendosi insieme. Viaggerà a bordo della mitica Argo Navis esplorando mondi sconosciuti che lo condurranno al limite delle terre emerse al cospetto del Polophilax; approfondirà la conoscenza della fauna terrestre e di quella acquatica, allargherà gli orizzonti della sua conoscenza per poi ripiegare verso casa a bordo di un leggiadro Globus Aerostaticus, pionieristico mezzo di locomozione celeste che lo ricondurrà alla propria dimora dove, ad attenderlo, troverà un piccolo e dispettoso Felis con cui giocare, come da bambino, prima di addormentarsi. Al risveglio ci sarà spazio per nuova musica. Quella di Home Music, improvvisazione ambientale concepita in maniera semplice attraverso un microfono e la finestra di casa spalancata sull'esterno, che fissa su nastro i rumori della natura circostante all'arrivo di un temporale estivo quando, nell'aria umida e già carica di pioggia, balenano lampi e si sparge minaccioso il fragore del tuono. E infine un omaggio. La conclusiva Taqsim è tutta dedicata ad Abdallah Chahine, musicista ed accordatore libanese che seppe inventare un pianoforte unico nel suo genere in grado di suonare sia con l'accordatura occidentale sia con quella orientale, ma soprattutto possessore di un respiro sullo strumento unico e al quale Fariselli guarda con attenzione mettendolo al servizio della sua ultima composizione. Cd da meditazione terrena in ambiente chiuso, con quella poca luce tardo-pomeridiana a filtrare attraverso le tapparelle, ma anche raccolta musicale da spazio aperto, notturno ed evocativo, PICCOLO ATLANTE DELLE COSTELLAZIONI ESTINTE è tutto questo e molto altro ancora: l'ennesima prova provata di come sette note musicali siano in grado di costruire mondi alternativi sfruttando una dimensione spazio-temporale spesso nascosta al quotidiano, ma che riposa in quell'essere umano così abile a ricostruire sé ed il proprio pensiero di fronte al creato. E le stelle stanno a guardare...

venerdì 20 giugno 2014

ONIRONAUTA

ONIRONAUTA
Kaleidoscopic
- Dischi Bervisti / Dreamingorilla / Woodworm - 2014

È una nuova, carnascialesca, Guernica quella che i promettenti Kaleidoscopic ci sbattono violentemente di fronte ai nostri occhi attraverso la complessa immagine di copertina realizzata dal chitarrista dei There Will Be Blood Riccardo Giacomin. Questo il punto di partenza visivo da cui si dipana presto una matassa musicale che fa di inquietudini e formidabile compattezza sonora una lucida dichiarazione di intenti. ONIRONAUTA è una idea, un modus vivendi, ma anche una carrellata spietata su un abisso di quotidiana normalizzazione della realtà. Per ottenerla il quartetto aretino ha lavorato duramente negli ultimi mesi cambiando pelle e irrobustendosi musicalmente. Due le novità sostanziali rispetto al passato più prossimo per un approccio comunicativo differente. La prima riguarda il passaggio tout court al cantato in italiano, espresso quasi come incidente di percorso nell'omonimo ep d'esordio; la seconda, il pressoché concomitante avvicendamento alle vocals, passate nelle mani della new entry Fabio Meucci andato a prendere il posto di Mario Caruso, precedente frontman e fondatore della band. Trenta minuti di vorticoso delirio sonoro, ma con una innegabile musicalità di fondo, sono l'atteso parto prodotto. In cabina di regia il funambolico Nicola Manzan, a.k.a. Bologna Violenta - ça va sans dir, è il valore aggiunto, il coordinatore e lo stratega di un progetto organico e multisfacettato insieme. La sua mano bervista si sente spesso nella claustrofobia generale delle scelte rumoristiche della band. Il delirio di Come Un Soldato, le accellerate smodate di Sottopelle e il solenne classicismo che determina l'essenza di Sensitivo sono l'esempio più fulgido e lampante. Ma ridurre questo esaltante lavoro ai soli interventi prodotti dal noto musicista veneto - coordinato da un'altra vecchia volpe come il "captain" Tommaso Mantelli - sarebbe riduttivo e francamente ingiusto nei riguardi dei Kaleidoscopic. I quali sgomitano e spingono sempre sull'accelleratore delle emozioni tra forze oscure e selvagge, in una parabola faticosamente ascendente che spazzi via a suon di decibel l'oblio in cui sembra esser caduto il mondo come lo conosciamo. Parafrasando il maestro Avoledo si potrebbe tranquillamente sostenere come ci sia "una sensazione forte proprio lì, in mezzo al torace: come se al posto del cuore ci fosse un terreno scavato, da cui tutto il buono è stato portato via. E nel vuoto prosciugato di ogni valore e bellezza, è come se lì adesso ci fosse una discarica di rifiuti", emblematico simbolo di pessimismo e negatività. È questa forte presa di coscienza, in ultima analisi, il motore per l'importante operato testuale della band. Forse per cambiare serve davvero uno scontro; ma prima di pensare a chissà quali propositi bellicosi rivolti all'esterno si guardi con coraggio dentro noi stessi. L'introspezione è l'ancora di salvezza, il cambiamento di mentalità radicale che può realmente rendere liberi. Del resto siamo tutti ostaggi di qualcuno o di qualcosa. 

giovedì 19 giugno 2014

THEE ASSTEMIANS

THEE ASSTEMIANS
Thee Asstemians
- HYSM?/Neon Paralleli - 2014

Pazzi e sconclusionati tre amici di lungo corso si incontrano un bel giorno, più o meno all'insaputa di tutti, con l'idea più malsana che potessero avere: realizzare nello spazio di una dozzina abbondante di minuti una imboscata sonora da fissare su quel supporto che comunemente tempo fa andava sotto il nome di disco, per vedere l'effetto che fa. Per la verità oggi la scelta vinilica è stata (temporaneamente?) accantonata, ma i cinque pezzi partoriti dal trio Spino-Ciappini-Intraina sono da un lato una autentica aggressione alle nostre orecchie, dall'altro una vitale iniezione di adrenalina sparata dritta al nostro cuore che torna così a pulsare come negli anni '90 quando - nonostante i tanti inutili soloni del malaugurio - la musica era ancora musica e le distorsioni erano ancora distorsioni. Cattive. Marce. Taglienti. Ciò che oggi viene così prodotto dagli strumenti di questi tre loschi individui dell'hinterland milanese che cappeggiano, elegantemente sgraziati, anche in copertina è un album di consapevole e disturbante disagio sonoro incentrato su due fattori chiave: la pesantezza di The Prayer, con le sue ficcanti urla dalla paura a lacerare l'aria satura di sgarbato doom, e i riff scarni, sghembi e riprovevolmente al fulmicotone che vanno a costituire i restanti episodi. Ognuno dei quali, in un momento di lucida follia dell'ascoltatore, potrebbe riflettere nell'attitudine più ancora che nella forma un momento musicale definito. Credere che Burn sia la quintessenza grunge del lotto è un incidente di percorso così come azzardare che si possa fare altrettanto con 1234 in ambito punk oppure ancora che Happy sia un approccio di elettronica asstemiana (ripetitiva, meccanica e del tutto priva di synth o tastiere!) mentre Jews sia applicabile al rock da classifica. È tuttavia una delle molteplici chiavi di lettura che la composizione in casa Asstemians concede a chi volesse approcciarvisi in maniera fin troppo costruttiva. Altri potrebbero più tranquillamente pensare che si tratti di uno sfizio portato a compimento da questo anomalo trio dopo anni di frequentazione e con lo zampino complice di Paolo Cantù, il quarto moschettiere mancato della band, ma sempre saldamente al timone con la sua carbonara Neon Paralleli quando si tratta di pubblicare destabilizzanti prodotti come questo. Altri ancora vorranno coniugare gli aspetti più strampalati dell'esecuzione (ricordiamo che Federico Ciappini è sì alla voce - spesso filtrata, ma anche alla chitarra; Mirko Spino percuote con veemenza quattro corde e Fabio Intraina irradia energia da dietro una batteria) con quelli progettuali. Poi ci sono senza dubbio quelli a cui il disco non arriverà mai. Pazienza. È stato messo in conto anche questo. Ma se c'è una caratteristica primaria di questo lavoro è proprio la sua leggerezza nell'approccio artistico, nella decisione di ritrovarsi in sala di registrazione una tantum, quasi per caso, senza alcun tipo di forzatura o preoccupazione. E liberare l'istinto del momento, facendolo convergere per catturarlo senza sovrastrutture. Altrimenti tanto vale. Com'è andata alla fine? Bene, decisamente bene: tanta sinergia e zero menate, come in quei film per cui vale il "Ciak, si gira!" e via, buona la prima. O nel peggiore dei casi la seconda. Un cult insomma. Amici miei - atto IV.
 

martedì 17 giugno 2014

OBTORTO COLLO

OBTORTO COLLO
Pierpaolo Capovilla
- La Tempesta - 2014

Ce l'aveva confidato lui stesso lo scorso anno, a margine di una delle tante repliche dello spettacolo La religione del mio tempo. "Sto lavorando con calma a due album. Uno è in collaborazione con Paki Zennaro", suo raffinato partner artistico proprio in quei reading dedicati a Pierpaolo Pasolini e con il quale si era affinata una buona intesa fatta di suoni minimali e parole recitate con trasporto e determinazione. OBTORTO COLLO è il risultato di quelle session e di quelle giornate, primo album solista per Pierpaolo Capovilla temporaneamente lontano dal suo Teatro degli Orrori. Per chi ha alle spalle almeno due album fondamentali come l'ottimo A SANGUE FREDDO e l'ancor più liricamente intenso e vissuto IL MONDO NUOVO le strade erano due. Ridursi al silenzio, magari optando per un album ambientale o comunque pressoché completamente strumentale oppure percorrere una via diversa, lontana dal rock sanguigno e fisico proposto in compagnia di Giulio Ragno Favero, Gionata Mirai e Francesco Valente. Capovilla accetta la sfida. Raccoglie i suoi appunti, ne redige di nuovi e apre lentamente la porta che conduce alla parte più intima di sé. Come rinnovarsi senza perdere un grammo di credibilità maturata in oltre vent'anni di carriera? Continuando a seguire i propri impulsi, affiancati da comprensibili dubbi e umane insicurezze, lasciando spazio all'uomo prima ancora che al portafoglio. A tratti controversa, quella proposta attraverso canzoni come Invitami e Dove Vai è una discesa tutt'altro che rilassata a lidi più pop, confidenziali, lineari, ma ugualmente articolati. Aguzzando l'ingegno e rivolgendosi, fra gli altri, a tutti quei musicisti che hanno reso fin qui il lavoro di Edda per Niegazowana un must discografico senza se e senza ma, l'operazione è un tentativo di dare nuova veste alle parole mai parche di un autore capace - merce sempre più rara - una volta ancora di dividere critica e pubblico. New skin for the old ceremony cantava Leonard Cohen giusto quarant'anni fa. E c'è molto del poeta canadese nel nuovo lavoro; non nei suoni scelti, ma nella capacità di raccontare storie in prima persona mantenendo un punto di vista comunque esterno. Storie di violenza domestica, come quella narrata in Quando che avremmo visto tranquillamente nel repertorio popolare del grande Jannacci, e di discriminazione sociale (Irene). Racconti in cui l'isolamento e le difficoltà affrontate dagli uomini trovano una muta risposta ora ne Il Cielo Blu ora più semplicemente al tavolino di un bar, sia che ci si trovi nel cuore magico di Torino (La Luce Delle Stelle) oppure a milleottocento chilometri di distanza dalla Mole Antonelliana in quel di Bucharest. Capovilla sceglie la via popolare eppure è quella meno facile; senza dubbio la più rischiosa. Infischiandosene di logiche e consensi facili tira dritto per la sua strada edificando mattone dopo mattone, canzone dopo canzone, un nuovo ponte di comunicazione con l'esterno, senza troppe illusioni, ma con il consueto sguardo disincantato, razionalmente emotivo. Nulla è difficile per chi ama. Neppure riempire quel vuoto incolmabile dentro sé riversato obtorto collo.

lunedì 16 giugno 2014

BERTOLI

BERTOLI
Alberto Bertoli
- I Nomadi - 2014

Chi la dura la vince. Dopo diversi anni di faticosa, ma salutare gavetta puntellati da qualche singolo dall'intento benefico, prestigiose collaborazioni live e il fumettistico ep IL TEMPO DEGLI EROI su cui faceva la sua comparsa la chitarra rouggente di Luigi Schiavone, Alberto Bertoli riesce finalmente a dare alle stampe il suo primo lavoro non senza evidente soddisfazione per il risultato finale ottenuto. A oltre dieci anni di distanza dalla sua collaborazione con i Sempre Noi di Gian Paolo Lancellotti (per i quali scrisse il blues di E Intanto) le strade del figlio dell'indimenticato Pierangelo si incrociano una volta ancora con il mondo dei Nomadi. Questa volta è nientemeno che Beppe Carletti a prendere sotto la sua ala protettrice il giovane Alberto producendone il disco d'esordio dopo l'interessamento iniziale del fido Massimo Vecchi, grintoso avamposto rock all'interno del combo novellarese. Affiancato in studio di registrazione dai gagliardi Manoloca, altrettanto noti al popolo nomade e capaci di sposare le istanze del giovane Bertoli in un connubio spontaneo di rock padano e melodie ariose, Alberto firma nove dei dieci brani in scaletta (alcuni in coppia con il già citato Vecchi) lasciando spazio alla penna del padre nella conclusiva e per nulla scontata Delta, omaggio al Grande Fiume che bagna l'Emilia - e a tutta la vita che gli fiorisce intorno - datato 1993. La scelta di affidarsi in apertura all'elegante pop rock di E Così Sei Con Me è del resto altrettanto naturale e programmatica, tra i ricordi di un'infanzia e gli insegnamenti di una giovinezza trascorsa al fianco di un grande uomo, eredità di coerenza e libertà, giusto preambolo al primo singolo Come Un Uomo con quella sua chitarra à-la The Edge che imperversa solare tracciando panorami aperti del tutto simili ai campi di grano che puntellano il territorio emiliano. Già dopo una manciata di ascolti è chiaro come Bertoli sia il nuovo indiano padano. Sincero e appassionato. Si vedano le accellerate di Quando Non Ne Hai Più oppure l'ironico rock'n'roll di Mondo Di Media con un debito grosso così con i conterranei Rats. Ma qua e là ci sono tracce pure dell'outlaw Graziano Romani e dei suoi Rocking Chairs, del riminese Filippo Malatesta e del primissimo Ligabue, fautori di un rock solido, a volte ricercato, quasi sempre orecchiabile, complici testi diretti e facilmente memorizzabili (Sulla Statale 106). Ugualmente dotato di quella loro stessa energia Bertoli lascia esplodere dunque tutta la sua emilianità anche nei momenti sonori apparentemente più distanti come Senza Davvero Un Perché, a tutta prima intonata alla musica celtica di Boomtown Rats e Celtas Cortos, ma che a ben vedere è indissolubilmente legata alle nostre corti padronali quando ai dì della festa si soleva danzar la sera sull'aia di casa, in spassosa allegria. Anche nella malinconia de Il Clown (mentre nell'arpeggio portante il pensiero corre alla nomade Tempo Che Se Ne Va) l'anima padana di Alberto trova occasione per manifestarsi, pacata e riflessiva, mentre piace sottolineare il messaggio pacifista contenuto nell'inno universale affrontato da La Storia Di Elena seppur non convinca del tutto il finale monco. Plauso a Gabriella Martinelli per i suoi interventi vocali nella romantica Se Sarai Lontana, ballad semplice, ma di grande effetto come, nel suo insieme, risulta esserlo tutto il cd, piacevole accompagnamento musicale in questo scorcio di 2014. Quando in casa propria si respira e vive Musica 24 ore su 24 i risultati non possono tradire le aspettative. Ora non resta che dare un seguito a questo BERTOLI, felice nel colmare il vuoto di una assenza e irrinunciabile come la felicità che precede l'attesa dell'incontro.

lunedì 9 giugno 2014

MINORANZA RUMOROSA

MINORANZA RUMOROSA
Danilo Sacco
- E20 Sound - 2014
 
C'è modo di poter tornare a coltivare i propri sogni e a rincorrere le proprie utopie? Oppure tutto è destinato all'oblio, vittima di un mondo capace di fagocitare volti ed emozioni in nome di una spersonalizzante ansia da prestazione? C'è modo di far sentire ancora la propria voce - alzandola se e quando necessario - oppure siamo destinati a soccombere di fronte alla damnatio memoriae di una secolarizzazione degli affetti e delle idee? C'è spazio per continuare a raccontare storie di forte impatto, fossero anche apparentemente minime, tali da rivelare una universalità che è dentro di esse e che la musica ha il pregio di mettere a nudo? Oppure il nostro tempo è scaduto mentre l'appiattimento massificato, l'apatia generalizzata e la paura di esporsi hanno avuto la meglio sull'essere umano? E ancora: è possibile una vita nomade... dopo i Nomadi? A tutti questi e altri quesiti risponde la MINORANZA RUMOROSA di Danilo Sacco, secondo lavoro in studio per l'ex cantante della band di Novellara, con una prova di carattere in linea con il suo passato più prossimo e nel solco della tradizione degli storytellers nostrani. A due anni di distanza dall'umorale e più intimo UN ALTRO ME il cantautore piemontese torna a far parlare di sé lasciando voce a chi voce non ha e non può avere nel caos magmaticamente (dis)ordinato della globalizzazione ad ogni costo. Con la direzione artistica di Davide Tagliapietra, per la seconda volta in cabina di regia, e annunciato in pompa magna dall'esplosivo singolo omonimo che tanto deve all'irruente icona punk Iggy Pop e ai Green Day più maturi, MINORANZA RUMOROSA evidenzia il lavoro di dignità intellettuale e cesellatura approntato dall'affiatata equipe che Sacco ha messo in campo a partire dall'imprescindibile riff master Valerio Giambelli e dall'altrettanto decisivo Andrea Mei, uomo chiave tanto nella costruzione dei brani quanto nel personalizzare con colori e accenti unici gli umori e le sensazioni da essi trasmessi. Idee, entusiasmo e passione. Sono questi gli ingredienti niente affatto segreti con cui aprirsi, ricettivi, al mondo esterno (si veda la collaborazione con il rocker croato Gibonni nella ballad finale She Said "Non Credere"); captando input, metabolizzando stati d'animo, rielaborando eventi e narrazioni al fine di raccontare in musica la realtà di tutti i giorni. Sia essa una spina nel fianco di stridente attualità come lo sono i licenziamenti de La Mia Lettera oppure estremamente più poetica, come l'amore per la bella Emilie cristallizzato nel tempo dal pittore Charles Moulin. Storie comuni, ordinarie, spesso umili. Per ognuna un vestito cucito su misura. Così alla sognante leggerezza pop di Novembre Mattina, limpida e cristallina, ribatte la dirompente circolarità della potente Io Non Voglio Più (con i suoi riusciti escamotage metrici), a suo modo replicata dalle riflessioni di Nati Per Vivere e infine mitigata con toni leggendari dalle Highlands scozzesi e dalle lande irlandesi così care ad Erin ed evocate dalle cornamuse di Charlie Allan. L'eco lontano  di Se Vorrai Se Vuoi succede alla drammatica storia di disinteressata solidarietà descritta in Da Qui All'Eternità. Qui Sacco, attraverso il racconto di exempla come quello del pastore ossolano Walter Bevilacqua, straordinario nella sua ordinarietà, sembra raccogliere il grido di chi, a gran voce, reclama per i cantautori un ritorno alle origini affinché tornino una volta ancora socialmente scomodi, non più schiavi del proprio ego né sedotti da facili soluzioni di comodo. Anche la già nota Niente È Per Sempre, spesso provata in sede live, trova il giusto equilibrio in questo album collettivo dove ognuno lavora sul meglio del compagno che ha a fianco; svetta la collaudata sezione ritmica Costa-Melotti, ma gli arpeggi acustici delle chitarre sono da brivido per un pezzo Americana DOCG. È musica ribelle, dell'anno 2014. Solida e resistente. Da ascoltare ad alto volume. Per continuare nel sogno affinché l'utopia diventi una volta ancora realtà.

venerdì 30 maggio 2014

HAVE YOU EVER BEEN?

HAVE YOU EVER BEEN?
In.Visible
- autoproduzione - 2014

Solitamente si tende a diffidare dei progetti solisti dei batteristi, non perché non si reputino in grado di comunicare e trasmettere emozioni senza la loro strumentazione principale, ma molto probabilmente perché si usa pensare il loro lavoro al di fuori della band di appartenenza come a un semplice diversivo, ad un divertissement occasionale, un modo come un altro per non restare con le mani in mano immettendo sul mercato un dischetto altrimenti non particolarmente degno di nota, ma capace di far fare qualche soldino in più anche nei tempi off del proprio lavoro principale. Non è questo il caso di Andrea Morsero, alias In.Visible, faticatore del ritmo per molte realtà provinciali come Stereo Plastica, Kali e, tra gli altri, i più quotati Emily Plays (di cui è da poco uscito l'interessante EVERYTHING WILL BE PURE AGAIN), ma anche dj di lungo corso delle notti sabaude con lo pseudonimo di Sir Heavy Soul. E proprio qui sta il punto. La capacità di sdoppiarsi in realtà ben distinte e a sé stanti come quella dei palchi su cui suonare da un lato e quella dei dancefloor dall'altro ha portato Morsero in oltre venti anni di esperienza a confrontarsi con realtà differenti nella forma, ma per nulla inconciliabili nella sostanza da un punto di vista di attitudine ed energia. Con HAVE YOU EVER BEEN? cadono una volta ancora muri apparentemente invalicabili, con la ritmica sempre al centro dell'attenzione e il groove mai sotto il livello di guardia. A ben vedere sono parametri ben noti ai Depeche Mode più all'avanguardia, verso i quali episodi come la perversa Leather, la fluttuante Feel e la glaciale The Second Way guardano con rispetto e ammirazione, e al David Bowie più sperimentale. Ma c'è quel tocco di melodia ben più artigianale rispetto a quanto proposto dalla corazzata del trio Gahan-Gore-Wilder, o dal sopracitato Duca Bianco, la quale presta il fianco a differenti suggestioni e a una più ampia e immediata fruibilità senza snaturarne l'essenza profondamente elettronica. Non stupirà ad esempio se ad Invisible si accosteranno certe soluzioni formali adottate tre decenni fa dai Matia Bazar mitteleuropei di inizio anni '80 quando, spronati dell'imprescindibile Mauro Sabbione, rilasciarono un uno-duo rimasto negli annali della musica come BERLINO, PARIGI, LONDRA e TANGO. Nemmeno coglierà impreparati l'omaggio alla prima ondata new wave italiana con Diaframma e Underground Life in prima linea. La stessa Stagén pare uno strumentale rimasto troppo a lungo nei cassetti - e ora opportunamente aggiornato - dell'Eneide musicata in quegli stessi anni dai Litfiba con la compagnia Krypton. Ma ancora: Kraftwerk, Nine Inch Nails, The Cult, il Billy Idol neuromante del tanto vituperato CYBERPUNK, U2, i Joy Division che si apprestano a divenire New Order (Fingers), i concittadini N.A.M.B.; tante sono le influenze e le (nuove?) passioni di Morsero che hanno saputo flirtare con ottimi risultati tra rock e elettronica. Oggi riescono ad emergere senza filtri,  per ciò che sono: momenti di curiosità e ricerca personale, ma anche di sperimentazione sonora alla scoperta di una nuova pelle, complice l'isolamento lavorativo che la periferia di Nicosia, capitale cipriota presso cui è stato composto il cd, ha offerto a In.Visible. A Lele Battista va invece il merito di aver creduto nel progetto e di averlo portato a compimento concretizzandolo tra le ombre del suo studio senza dimenticare il proprio passato di sintesi e pop. La riprova è la chiusura à-la Brett Anderson di Under, velata ballad malinconica dal sapore agrodolce, contenente tutta la gioia per l'attesa di un nuovo incontro.
 
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