venerdì 29 agosto 2014

UN DIO FURIOSO

UN DIO FURIOSO
Na Isna
- autoproduzione - 2014

Mettiamo subito in chiaro una cosa: Na Isna è molto più che una band. Na Isna non si limita a concludere la propria parabola vitale realizzando dischi ed esibendosi in concerti. Na Isna è innanzitutto un modo di intendere la vita e relazionarsi ad essa con un approccio essenzialmente di riconoscenza e amore gratuiti verso la propria terra e le proprie origini. Presa in prestito dall'onomastica dell'etnia Balanta, comunità dell'Africa occidentale originatasi in Guinea Bissau, l'espressione "Na Isna" quale sinonimo di attaccamento e appartenenza alle proprie radici, essa è divenuta in un secondo tempo la sigla discografica dietro cui si celano cinque musicisti carpigiani riunitisi su impulso del cantante Marco Lodi. Se Jinn in Caos e Like a Shadow? sono nomi che ai più risulteranno sconosciuti è giusto ricordare come da queste stesse formazioni della provincia modenese sia germinato un seme nuovo che, senza rinnegare il passato, avrebbe rielaborato antiche strutture compositive sviluppando nuove linee guida alla base di UN DIO FURIOSO. E sono quasi riti di passaggio anche le dieci tracce che vanno a comporre questa riuscita autoproduzione supportata dall'entusiasmo della band e dalle coproduzione artistica di Andrea "Druga" Franchi - una vita al fianco di Paolo Benvegnù, nella non facile sfida di emergere dal sempre più caotico magma discografico. Del resto i Na Isna sono pur sempre quelli che resistono; così, caparbiamente incuranti degli ostacoli mediatici, eccoli andare avanti per la loro strada con quel bagaglio di idee che ha saputo prender forma e consolidarsi in un rock chiaroscurale, sostanzialmente elegante e rabbiosamente intimista, dal sapore tribale. Della percussività primigenia il gruppo pare non riuscire a fare senza. Percussiva come un'accetta che lenta, ma meccanicamente inesorabile abbatte una pianta è infatti la batteria marziale di Un Attimo, appiglio a cui ci aggrappiamo quando i ritmi incalzano e la nave con la quale siamo salpati da un porto sicuro per un viaggio di cui ancora ignoriamo la meta viene squassata dalle onde sempre più alte e impetuose di una tempesta marina che ci ha sorpresi al largo. Torna solo in apparenza la calma con Stri-Stri, singolo poggiante su un arpeggio acustico, ipnotico e dinamico che valorizza la voce espressiva di Lodi e ne asseconda la solitaria tensione poetica. La stessa che anima il racconto de Il Gobbetto Del Parco, maratona coldplayiana capace di tenere alta l'attenzione grazie anche all'impegno strumentale del quintetto emiliano, prima di confluire nella melanconica Sui Tuoi Passi. Ipnotica e meditativa Canzone Della Torre Più Alta aveva già lasciato intendere che il leitmotiv dell'album si sarebbe sviluppato seguendo queste direttrici con una particolare attenzione alle forme mutuate Oltremanica; a volte speziate (Tigri Dagli Occhi), altre semplicemente rinvigorite da qualche comunque timido accenno di elettronica (Un Flusso). A rischiare di compromettere però il tutto ci pensa la durata forse eccessiva di qualche pezzo; una maggiore capacità di sintesi che non distolga l'attenzione dalla cura alle liriche, senz'altro uno dei punti di forza del gruppo, gioverebbe a rendere più accattivanti narrazione e intento comunicativo. Ma oggi era giusto rompere gli indugi e proporsi senza rete nell'intricato girone degli outsider. A soluzioni di labor limae meno convenzionali ci si penserà domani. Senza rimpianti.        

mercoledì 27 agosto 2014

ROYAL BRAVADA

ROYAL BRAVADA
Royal Bravada
- autoproduzione - 2014

Con una copertina che rimanda agli inarrivabili Queen e fa il verso ai conterranei Gerson i monzesi Royal Bravada arrivano al debut album forti di un buon hype e con le idee chiare in merito a come far suonare anche in studio il proprio lavoro. Catalizzare l'attenzione in poco meno di quaranta minuti può essere tuttavia un'impresa molto più ardua di una buona mezz'ora formato live quando non solo la musica, ma anche l'aspetto performativo contribuisce in maniera decisiva a formare le impressioni dell'ascoltatore. Qui è necessario allora dare fondo a tutto il bagaglio accumulato negli ultimi ventiquattro mesi di prove e concerti per giocare a carte scoperte e tentare di lasciare il segno fin da subito. Due chitarre, un basso, una batteria. La voce di Alberto Ciot. E una scrittura ritmico-testuale fondata sull'inglese che se da un lato avvicina la band nostrana a quelle ben più blasonate d'Oltremanica (Franz Ferdinand, Arctic Monkeys e Kasabian sopra tutte) dall'altro sembra essere a tutta prima anche più funzionale per il proprio progetto rispetto a quella sciacquata secoli fa in Arno dal Manzoni. Drawing Circles, Hold Fast e Thieves Friends confermano del resto quanto di buono ci era stato raccontato a proposito dello spavaldo gruppetto lombardo. Ciò che scaturisce da questa amalgama di persone, idee e suoni è un disco perciò piacevolmente frizzante e fresco, sicuramente derivativo, ma come prima prova è giusto non chiedere di più. Anche perché in realtà non tutto ruota attorno a quell'indie rock contemporaneo di stampo anglosassone cui accennavamo qualche riga fa e che tanto è andato per la maggiore negli ultimi tempi. In fin dei conti gli eterogenei ascolti del quintetto affiorano più o meno marcatamente in diversi episodi del cd. Il crossover pompato di Round The Corner e quello robusto di The Wolf rivelano ad esempio una predilezione per una musica sì dinamica, ma pur sempre compatto e vibrante. E se con l'intro della sognante Mad Dog si scrutano lontane oasi, intervallate da pianure progressive in pieno deserto, con Darkside Backyards si esplora addirittura un versante acustico altrimenti nascosto, inatteso e piacevolmente "di rottura" con il resto del lavoro, che crediamo verrà approfondito - magari ancora in piccole dosi - nel prossimo futuro. Ci sono perfino i fiati nelle sequenze electro-disco di Secrets?! Insomma, di tutto un pop. A non convincere granché resta invece l'ormai abusatissima cover in chiave rock dei Chemical Brothers Hey Boy Hey Girl, ma tant'è. Il dado ormai è tratto e indietro non si torna. Le mosse future della band saranno quelle decisive per capire se la stoffa dei Royal Bravada è di qualità superiore oppure sottile come un unico velo di organza. Può accadere di tutto a questo punto; basterà solo smarcarsi dalle proprie passioni e procedere spediti con il proprio passo.

martedì 19 agosto 2014

L'ANGELO RINCHIUSO

L'ANGELO RINCHIUSO
Aldo Tagliapietra
- Clamore - 2013

"Io non sono un uomo del passato e nemmeno un uomo del futuro. Io viaggio nel tempo - prigioniero del vento - sulle ali dell'eternità." Questo è Aldo Tagliapietra oggi. Questo è il sintetico ritratto che meglio esprime l'essenza dell'Uomo prima ancora dell'Artista che per decenni ha contribuito a forgiare con Le Orme un sound unico e riconoscibilissimo in Italia e all'estero, autore schivo eppure determinante per la quadratura del cerchio, perennemente innamorato del suo lavoro. Se dopo il mesto divorzio dalla band madre che, ricordiamolo, contribuì a fondare nel lontano 1966 qualcuno avesse ipotizzato un sereno e tranquillo ritiro a vita ascetica e contemplativa in qualche locus amenus tra Veneto e India, la produzione discografica post Orme del musicista muranese è qui a dimostrare con veemenza l'esatto opposto. Con una progressione oggettivamente quasi insperata - visto il glorioso passato e la possibilità di vivere di rendita con nuovi live improntati su un facile revival - alle soglie dei settant'anni Aldo vive una seconda giovinezza ed estrae dal proprio quadernetto degli appunti note e pensieri capaci di puntellare quella che possiamo considerare una carriera solista vera e propria. Magari non cercata, ma vissuta con la solita passione e il noto impegno; di certo non come una parentesi minore. Abituato a ragionare in gruppo, Tagliapietra conferma dalla precedente formazione gli affiatati Former Life Matteo Ballarin e Andrea De Nardi, coadiuvati dal già noto Manuel Smaniotto, e, indicando la via, si fa accompagnare dai giovani trevigiani in un onirico viaggio sinergico. Una sfida senza più compromessi che richiede, ma al tempo stesso implementa, energie e forza comunicativa. Se NELLA PIETRA E NEL VENTO, il precedente album rilasciato nel 2012, andava ad esplorare la dimensione prog su un impianto fondamentalmente pop L'ANGELO RINCHIUSO, pur non rinunciando mai alle imprescindibili linee melodiche tanto care a Tagliapietra, si inserisce senza dubbio in maniera più completa nel solco della tradizione progressiva. Neanche troppo paradossalmente è proprio la melodia ad accentuare l'essenza prog delle nuove composizioni, assemblate spontaneamente in una elegante suite di quasi quaranta minuti, sganciandosi da statici cliché formali che vorrebbero sempre la tecnica prevalere sul buon gusto. Riflessi Argentati, breve raccordo strumentale tra la circolarità di Io Viaggio Nel Tempo e la cosmica riflessione interiore di Storie, è uno dei tanti esempi in tal senso, favoriti dalla felice scansione narrativa del platter incentrata sulla visita notturna ad un vecchio da parte di quell'angelo che dà titolo al disco e al successivo, intimo, dialogo tra le parti. Sarà questa stessa creatura ultraterrena a restare imbrigliata tra i fitti reticoli della memoria umana allorquando, passati in rassegna i ricordi del tormentato signore, giungerà ad una nostalgica immagine famigliare: quella di due pianeti lontani, localizzati in simbiotico parallelismo nelle profondità dell'universo. Lo sfavillante Felona e l'oscuro gemello Sorona sono una volta ancora lì davanti ai nostri occhi, in tutto il loro fascino astrale, quarant'anni dopo la loro prima apparizione. Qui la rivelazione. Al nostro fianco infatti la creatura celeste ed l'essere umano assumono i contorni di proiezioni dello stesso Tagliapietra, con la prima tutta intenta a lenire i dolori del secondo. Il sontuoso Magnificat finale rafforza l'accorata preghiera laica e chiude il lavoro risuonando in una esistenza che è verità di fede. Come gli angeli custodi; invisibili e silenziosi, ma sempre accanto all'uomo. Prova ad alzare uno sguardo verso il cielo e tutto capirai.

lunedì 18 agosto 2014

KARMA - GNUQUARTET IN PROG

KARMA - GNUQUARTET IN PROG
GnuQuartet
- autoproduzione - 2014

E finalmente è accaduto. È accaduto che il ben noto GnuQuartet, da anni spalla musicale di gran lusso per decine e decine di artisti maggiormente esposti da un punto di vista mediatico, abbia deciso di scendere in campo con un lavoro sorprendente e anomalo. Almeno al giorno d'oggi. Sia chiaro: che la musica classica incontri il rock e ne influenzi - arricchendole - certe strutture e armonie non è certo una novità di questo secolo. I prodromi vanno forse ricercati nel lontano 1969 quando gli allora rinnovati Deep Purple, capitanati dal mai dimenticato Jon Lord e con la new entry Ian Gillan alla voce, seppero fondere le proprie inclinazioni più propriamente heavy con il canone classico della Royal Philharmonic Orchestra di Londra condotta da Malcolm Arnold. Da allora l'incontro fra i due mondi seppe operare una vera e propria fusione allorquando sulla scena comparvero una nutrita schiera di band e musicisti, spesso tecnicamente sopraffini, capaci di dar il là a quello che in Italia andò inizialmente sotto il nome di pop, ma che all'estero veniva raccontato come progressive rock. Se qui da noi il trittico di complessi più celebrato (Banco del Mutuo Soccorso, Le Orme, Premiata Forneria Marconi) fu in grado di produrre dischi ancora oggi ritenuti in grado di rivaleggiare con i nomi più altisonanti d'Oltremanica e d'Oltreoceano, fuori dai confini patrii la musica avrebbe ricevuto una uguale attenzione grazie a formazioni altrettanto blasonate e competenti. Del resto la classica, quasi patrimonio nazionale, era già stata utilizzata nel decennio precedente per nobilitare attraverso le orchestre canzoni superficialmente considerate leggere, ma evergreen a tutti gli effetti: come non ricordare gli ensemble orchestrali diretti dal maestro Ruggero Cini o da un giovane Ennio Morricone? Che dire del lavoro negli studi dell'RCA? E dei contributi di Gian Piero Reverberi, Louis Bacalov e Angel "Pocho" Gatti perché non parlare? Nel 2007 i Nomadi di Beppe Carletti, nella prima metà dei '70 coadiuvati dal direttore argentino, avrebbero riportato in auge tutto il loro repertorio incidendo un emblematico doppio live album in compagnia della Omnia Symphony Orchestra diretta da Bruno Santori, a sua volta conduttore di quella Symphsonic Orchestra protagonista solo lo scorso inverno con la PFM de IN CLASSIC, una nuova lettura trasversale e sperimentale in equilibrio tra classica e prog. Così il quartetto ligure composto da Stefano Cabrera, Roberto Izzo, Francesca Rapetti e Raffaele Rebaudengo con una simile tradizione alle spalle in KARMA - GNUQUARTET IN PROG decide di omaggiare le proprie passioni condensando le quattro individualità nell'articolata Stereotaxis, sconfinato volo pindarico realizzato su più piani interpretativi, nonché autentica, spericolata sintesi fra folk, prog, jazz e - ça va sans dire - classica. L'unico inedito del cd diventa in realtà occasione per intuirne le direttrici principali sviluppate di lì a poco a partire dal genio di Frank Zappa (Peaches En Regalia), passando per gli attesi Pink Floyd (The Great Gig In The Sky con il prezioso featuring vocale di Durga McBroom-Hudson) e i barocchismi rock degli Yes (Roundabout), fino ai maturi Genesis di Hairless Heart. Conclude l'esperienza un sentito omaggio al primo esperimento italiano di musici e orchestra. Concerto Grosso 1, I Tempo, Allegro è infatti il giusto tributo a quei primi, conterranei e seminali New Trolls nell'ennesima rilettura per soli archi e flauto capace di dare un seguito, una progressione, a quel tesoro musicale che li ha preceduti completando inconsciamente quanto proposto sull'Adriatico dai romagnoli Quintorigo. Un "deposito di esperienze e storie del passato che attiene all'inconscio, al fluire continuo della vita ed alla sua capacità di trasformazione". Forse che qualcuno ha parlato di karma?

giovedì 7 agosto 2014

TRISTI TROPICI

TRISTI TROPICI
SUS
- Technicolor Dischi - 2014

Arruolato in pianta stabile il polistrumentista Fabio Pocci il trio toscano dei SUS (misterioso acronimo che rivela un ben più diretto e "lazy" Succede Una Sega) si ripresenta con un secondo lavoro discografico dalle enormi potenzialità, coordinato da quella vecchia volpe dell'indie italico che risponde al nome di Fabio Magistrali. Variando su più registri e temi musicali, come in parte già accaduto nel precedente album di debutto IL CAVALLO DI TROIA, Alessio Dufour e compagni decidono di assemblare un dinamico guazzabuglio sonoro puntando una volta ancora sulle loro indubbie capacità esecutive che vanno di pari passo anzi, trovano proprio terreno fertile nelle composizioni liriche del fantasista Alessio Chiappelli, membro sussico ad honorem. Grazie infatti a testi poeticamente stranianti capaci di unire la verve aulica e immaginifica del conterraneo Alessandro Fiori alla lucida analisi di piccole realtà quotidiane di un disincantato De Gregori di periferia, i SUS concretizzano con disinvoltura il disco più maturo eppure ineccepibilmente estroverso della loro fin qui breve storia. TRISTI TROPICI rivela infatti un deciso passo in avanti rispetto all'esordio di ormai un lustro e mezzo fa, ampliando il loro neanche troppo malcelato orizzonte critico e mantenendo intatto il gusto per lo sberleffo che ne contraddistingue da sempre le esibizioni dal vivo. Come se ci trovassimo su un mirabolante ottovolante alla fiera di Quarrata in un Lunedì Feriale qualunque è un attimo passare dagli offici ministeriali dei Fratelli Calafuria più subdolamente dark alle orge compassate de Il Cerchio, raga cantautorale capace di mostrarci come sarebbe potuto essere oggi Bugo se non si fosse fatto volontariamente distrarre dal giro giusto anziché venir folgorato sulla via delle major da, per esempio, un Lucio Dalla d'annata. Si corre, si lotta, si sgomita per uno smartphone, dimenticandosi di tutto e tutti; non c'è futuro ne Il Campo Aspirazioni, come del resto è semplice lasciarsi assoggettare dalla massa e rinunciare alla propria sacra individualità se si Accetta Il Mistero che ci fa tutti uguali. Summa del pensiero chiappelliano è poi la splendida title track, disilluso viaggio verso il sogno latino di una terra che non c'è, adeguatamente commentata in musica dalla band che condivide gli umori chiaroscurali mai riscattati da una inazione generazionale fatta di scuse e giustificazioni. Da qui si sviluppa un lungo e continuo carosello evocativo capace di correre rapido attraverso miracoli che sarebbero piaciuti a Battiato (1984) e ingorghi di cervelli in fuga, in coda al check-in verso la libertà (Amo La Gente Che Smette) senza mai rinunciare al brivido della velocità immaginifica che il pensiero offre prima di spiaggiarsi, esausto, presso il Lungomare Vuoto Di Follonica, onirica costruzione cinematografica utile ad indicare una nuova direzione, e una comprensione in ultima analisi politica, della realtà. Fatta di opportunità e occasioni nuove, imprevedibili, rivoluzionarie. Mentre l'Italia continua a giocare a carte e a parlare di calcio nei bar...  

mercoledì 6 agosto 2014

TUTORIAL

TUTORIAL
Dilaila
- Niegazowana - 2014

...Che disco!?! ...Che disco!?! ...Che disco!?! Come fare a lasciarselo sfuggire e a non parlarne!?! Frizzante, arioso, malinconicamente retrò, briosamente contemporaneo. Difficile trovare al giorno d'oggi un lavoro intelligentemente pop, scevro da facili soluzioni ad effetto e ricco di contenuti duraturi. TUTORIAL ha il piglio e la statura artistica dell'evergreen, quarto disco di una band giunta ormai al quindicesimo anno di attività e sempre troppo lontana dai riflettori e dalle passarelle che contano. Capitanati dalla spumeggiante Paola Colombo, gran voce e personalità scenica molto intensa, i Dilaila tornano sul luogo del misfatto dando alle stampe il lavoro più maturo e completo della loro ultradecennale carriera; non sempre facile da portare avanti, ma sostenuta con abnegazione da una caparbietà e da quell'incrollabile pazienza che solo chi crede davvero nei propri mezzi sa come sfogare attraverso le proprie passioni. Grinta e carattere insomma, che trovano stimolo e linfa vitale dalle avversità continuando a rispondere alle esigenze espressive che si hanno dentro. Queste le caratteristiche principali che vibrano tra i riverberi e le storie di disperata quotidianità delle nove nuove canzoni scritte da Luca Bossi e Claudio Ciccolin con lo zampino determinante della Colombo. Che apre, spalanca le porte della sua vita esponendosi in prima persona come mai prima d'ora, raccontandosi a cuore aperto, trovando la giusta comprensione e la perfetta alchimia compositiva negli storici compagni di sempre. Sonorità genuine sulla scia del precedente ELLEPI', già ampiamente elogiato per la freschezza compositiva e le efficaci soluzioni armoniche, ma con un quid che fa la differenza: la capacità di portare a livelli poetici parole ordinarie che nel canto della mora interprete lombarda vibrano, trasfigurate, con atipica liricità. "Oggi ti senti così e pensi sia normale guardare negli occhi le tue PENTOLE": così si apre Storia Di Una Scema Che Diventò Farfalla e così si apre il disco. Se dire "pentole" con lo stesso trasporto con cui si potrebbe dire la parola "amore" o "vuoto", se portare una frase di questo tipo ad un livello di inquietudine che nasconde un mondo intero ti viene naturale, beh, allora significa avere i crismi dell'Artista. L'ha fatto per decenni Enzo Jannacci; lo fa tutt'oggi il ritrovato Stefano Rampoldi. Paola Colombo è sulla loro scia. TUTORIAL è tutto questo. E non rivela punti deboli. Mai. Pur affondando le radici nella tradizione della canzone italiana anni '60 non si incappa in alcun modo nel facile ripiego manieristico che avrebbe concesso sonni tranquilli e la felicità del portafogli. Senza disdegnare l'esperienza performativa della Summer of Love i Dilaila abbracciano una porzione davvero ampia di storia della musica, da Mina ai Doors passando per i Beatles e la Caselli, in una sua costante rivisitazione e correzione alla luce delle correnti del nuovo secolo, sottolineando l'aperto contrasto tra l'attuale mondo tecnologico in cui stiamo vivendo e l'immaginario genuino, sincero e autentico proposto con disinvoltura fin dall'artwork del cd. Costruttori di idee e belle canzoni. Bravi Dilaila. Perché al mondo c'è sempre voglia di belle canzoni. PS: grazie Walter per avermelo ricordato.

mercoledì 30 luglio 2014

I'M WALKING ALONE

I'M WALKING ALONE
Gabriele Bombardini
- autoproduzione - 2014

L'approccio rilassato di I'M WALKING ALONE non tragga in inganno. Nell'esordio solista di Gabriele Bombardini, talentuoso chitarrista ravennate più volte al servizio di numerosi big della canzone italiana, ci sono molta più inquietudine e struggimento di quanto si potrebbe pensare. La pacata riflessività di una chitarra elettrica spesso ai limiti della fusion rivela in realtà un sottile velo di malinconia e abbandono che va a cozzare contro l'idea di una accomodante appagamento mentale dettato dalle leggiadre melodie prodotte. Se è vero come è vero che la sei corde di Bombardini è la protagonista assoluta di questo cd strumentale (solo in Children compaiono i sintetizzatori analogici di Matteo Scaioli), vale altrettanto la pena sottolineare come la dozzina abbondante di tracce che compongono il platter sia una piacevole opportunità anche per chi non mastica abitualmente questi territori di accostarsi, curioso, ad un materia talmente libera da vincoli e parametri di giudizio assoluto senza il timore reverenziale dovuto ai guitar hero più celebrati. La raffinatezza con cui sono eseguiti episodi tra loro differenti come l'ipnotica Morgana o l'avventurosa Sailing, caratterizzata da un ipotetico cullare costante delle onde, è motivo di innegabile talento da parte del Nostro che, messe da parti per un istante le collaborazioni più disparate, si ritaglia uno spazio tutto per sé: quella camminata in solitaria citata nel titolo del cd in grado di rivelare, un po' per gioco un po' per naturale necessità, umori e sensazioni inespresse. "La sfida - ricorda l'occhialuto chitarrista già al fianco di Adriano Celentano e John De Leo - è stata quella di chiudermi in studio di registrazione e vedere cosa poteva nascere partendo non da brani già strutturati, ma da semplici frammenti musicali e da una ricerca sul suono". Il risultato è una caleidoscopica soggettiva in grado di coprire più dinamiche sonore come se si trattasse di abbracciare con la musica la maggior parte dei colori dello spettro visivo. Un'esperienza terapeutica che è un aperto confronto con sé stessi e la propria anima, capace di liberare, vuotare il proprio io più nascosto in un viaggio a tappe di cui ancora non è stata individuata la meta finale. E se toni malinconici (Is It Cool?) e sostanzialmente algidi (Psychedelic Snow, Shine On Part IV) paiono prevalere assecondando la disarmante e solitaria essenzialità riprodotta in copertina, è pur vero che una condizione di totale indipendenza e autonomia come quella evocata non sopporterebbe emozioni troppo forti o accese. Così, ecco succedersi con un approccio minimalista altri momenti di raccoglimento e meditazione (Idea!, Peace And Love (?), Cyclic Experiment) in grado di sottolineare e tramandare a chi vorrà ascoltare la traccia del proprio passaggio; impronte leggere, color pastello, che si perdono nella risacca marina.  

lunedì 28 luglio 2014

OVERTONES - ELECTRONIC RESEARCH IN NATURAL HARMONICS

OVERTONES - ELECTRONIC RESEARCH IN NATURAL HARMONICS
Mario Conte
- Zoff82 - 2014

Quando la recherche di proustiana memoria modifica i propri propositi e sposta il proprio baricentro verso nuovi interessi e orizzonti spazio-temporali, i risultati possono essere imprevedibili e impensati come dimostra il cangiante flusso sonoro di OVERTONES. La nebulosa di suono che apre l'opera prima di Mario Conte pulsa infatti ritmicamente sulle inconsuete note del sorprendente cupa cupa. Oggetto niente affatto misterioso in terra salentina e lucana, il particolare tamburo a frizione la cui origine si perde nella notte dei tempi viene riscoperto dall'ingegnoso sperimentatore del suono, già a fianco della corregionale Meg, e inserito in un contesto musicale fatto di meccaniche ed elettronica all'apparenza totalmente estraneo. Solo dopo un ascolto attento il lavoro prodotto da Conte - in collaborazione con l'ensemble pugliese In Cupa Trance dell'imprescindibile Pino Basile - rivelerà una comunanza di intenti capace di condensare in un lasso di tempo infinitamente piccolo rispetto all'eternità l'ossessività delle forme ritmiche primordiali con la calda freddezza dei macchinari digitali e analogici. Harmonic Field #1 e la susseguente Harmonic Field #2,  caratterizzata da un disturbante ronzio circolare che sembra inghiottire e digerire ogni altra forma di vita, diventano così le chiavi di accesso ad un mondo sonoro estremamente liquido eppure al contempo totalmente dedito alla concretezza della terra, attraverso la compenetrazione produttiva fra ancestrale e moderno. È un dato di fatto da cui si originano in un secondo tempo tutti gli altri movimenti contenuti in questo piccolo bignami di armoniche naturali registrato in diverse parti del continente europeo. Una reticolata impalcatura liquida pronta a sostenere nuove, mobili, forme di suono plasmate più dalla mente che dai macchinari messi a disposizione dal progresso tecnologico. Una continua riflessione sulla loro mutevole condizione cangiante che, alla chimica e alla sintesi operata da altri soggetti culturali, ha preferito riscoprire le origini della terra, in una commistione fra passato e futuro originante il presente. Quello stesso presente alla base dello sperimentale progetto Phone Jobs, un collettivo di musicisti dedito al recupero di suoni elettronici prodotti da oggetti mobili come cellulari e i-phone ora riciclati per produrre musica. Dove porterà tutto questo è una incognita altrettanto mutevole e cangiante, soggetta a dinamismi sconosciuti e imprevedibilità. Per intanto guardando al tempo e al suo misterioso svolgersi, ci gustiamo il suono roboante, naturalmente straniante eppure così inconsapevolmente noto di Modern Country Side che nella registrazione ambientale libera le sensazioni di un viaggio trascendentale nel suo necessario passaggio fra campi materiali e mondi di pura energia. Una dimensione ultraterrena che solo il recupero delle nostre origini è ancora in grado di esplorare. Oggi come allora.

mercoledì 23 luglio 2014

BSB3

BSB3
Bud Spencer Blues Explosion
- 42 Records - 2014

Il micidiale uno-due assestato con lo scattante singolo Duel, poderoso hard blues elettrico della miglior fattura, e la vorticosa Mama, dilatata e nervosa sarabanda di riffoni muscolari, annunciano alla grande il graffiante ritorno in sala di incisione dei Bud Spencer Blues Explosion. Dopo circa tre anni di silenzio dal precedente album in studio DO IT, ma pur sempre a soli ventiquattro mesi di distanza dal prezioso dvd DO IT YOURSELF - NEL GIORNO DEL SIGNORE che dei BSBE rivelava il lato più acustico sviscerato di lì a poco da Adriano Viterbini nel suo acclamato album solista GOLD FOIL, il duo romano che tanto piace a pubblico e critica sembra aver fatto centro una volta ancora. Offrendo in pasto una formidabile sequenza di camaleontiche rock songs, monumentali e dinamiche insieme, i Bud Spencer hanno saputo presto ritagliarsi uno spazio sempre maggiore all'interno del panorama rock italiano grazie soprattutto a indiavolati live set infuocati e alle indubbie doti tecniche dei musicisti coinvolti. Ora però, forse per la prima volta nella loro carriera, ci troviamo di fronte ad un album più ragionato rispetto al passato recente, strutturato in maniera tale da non lasciar nulla al caso anche e soprattutto in vista della sua trasposizione on stage. Attenzione, non stiamo affermando di esserci ritrovati tra le mani un lavoro studiato a tavolino per ingraziarsi chissà quali nuove fette di pubblico o di addetti ai lavori. Semplicemente in BSB3 si respira un'aura sempre intrisa di zolfo, ma meno lasciata al caso e all'improvvisazione, novità estrema per una band, anzi un duo che vive di queste variabili, capace dunque di esprimere una metodologia lavorativa diversa, più consapevole e matura. Evidentemente una buona parte di merito è giusto tributarla a Giacomo Fiorenza, collaboratore di lungo corso del miglior Moltheni nonché fondatore con Emiliano Colasanti dell'etichetta discografica 42 Records per la quale il nuovo album è stato inciso; tuttavia non ci sarebbe potuto essere un confronto costruttivo e produttivo tra le parti se sull'altro versante della "barricata" l'alchimia fra il già citato Viterbini e il sodale Cesare Petulicchio non avesse trovato il giusto punto di incontro. Così, accanto alle classiche, potenti rasoiate di rock blues inferte con proverbiale precisione chirurgica, emergono dal controllato caos sonoro atmosfere inedite come il morriconiano crocicchio musicale che guarda all'Africa e sviluppato in Camion; oppure registri più rilassati, ma non meno coinvolgenti come invece attestato dalla malinconica Troppo Tardi. E scalpitano, al solito urgenti e dinamiche, le trascinanti scorribande impregnate di epicità, talmente potenti da far impallidire non solo i Black Keys, a cui i BSBE forse un po' troppo spesso vengono superficialmente paragonati, ma anche l'irrequieto Andrew Stockdale che attraverso una manciata di album con i suoi Wolfmother ha saputo riaccendere i riflettori su un suono sporco e verace mutuato dai primi Led Zeppelin. I quali sono inglobati nell'articolata No Soul insieme a Black Sabbath e Hendrix esattamente come accade in Hey Man, ma questa volta con i Nirvana che incontrano i Verdena che incappano neanche troppo accidentalmente nei Rolling Stones a loro volta a spasso con i Negrita (Miracoli). La musica insomma si insinua vorticosa nell'aria e regala anche a questo nuovo capitolo discografico della band capitolina ardite sintesi che ne riaffermano il valore e la sostanziale maturità. L'ennesimo capitolo compiuto di una storia sempre più avvincente e sudata, nata sui palchi di periferia un po' per scherzo, ma capace di evolversi anno dopo anno in una miscela personale unica e riconoscibile, sviluppatasi tra il miraggio del sogno americano e la concretezza della fatica quotidiana. Cercami qui, vicino alle cose semplici mi troverai.

martedì 22 luglio 2014

LA PARTE MIGLIORE

LA PARTE MIGLIORE
Sabrina Napoleone
- Orange Home Records - 2014

Sabrina Napoleone sarebbe senz'altro piaciuta al Consorzio Produttori Indipendenti. Un disco importante come LA PARTE MIGLIORE emana una impressionante forza evocativa, costante  e umorale, che avrebbe sicuramente trovato spazio sul taccuino della premiata ditta Ferretti-Zamboni. Per personalità e intuizioni espresse la cantautrice genovese è una fresca ventata di ingegnosità architettonica nella costruzione della Canzone. Abile infatti a muoversi tra le sette note, Sabrina sa sfruttare il campionario inesauribile messo a disposizione dalla lingua italiana per licenziare atmosfere piuttosto uniche - e il più delle volte alienanti - mai riconducibili ad un solo mondo sonoro, supportate da una naturale propensione alla continua esplorazione del linguaggio e delle sonorità che vanno a pescare tanto dalla tradizione consolidata quanto dalle sfide interculturali aperte dalla globalizzazione. Fatto tesoro anche dei propri trascorsi teatrali, ponendo in costante equilibrio musica e testi, il percorso dell'ex Aut-Aut traccia una lunga strada che pare attraversare diverse epoche senza mai snaturare l'insita contemporaneità che una vita umana contiene. Ci colpisce, chiaroveggente e altera, fin dalle prime note del Fortunello petroliniano rivisitato e corretto nella costruzione quasi gotica di Fire per poi rilasciare, niente affatto sfuggente, la lezione imparata dalle grandi signore della musica. Ma non ci sono numi tutelari: solo grande rispetto e tanta applicazione affinché la potenza del momento creativo fuoriesca sempre diretta, focalizzando l'attenzione ora su una lirica ora su un suono. Al fascino ambiguo di molte sacerdotesse rock Sabrina preferisce una soluzione che sia sempre di impatto. E mai banale. Se all'irruenza di Medusa è facile infatti accostare un tonante basso "maroccoliano" capace di centralizzare l'ascolto, è in È Primavera che si compenetrano canzone popolare occidentale e ritmi arabeggianti al fine di ornare con adeguata misura un testo di durissima attualità politica scevro da retorica e omissis in cui addirittura la Mattinata Fiorentina di Alberto Rabagliati è il sorprendente pretesto per un arguto e stridente attacco al malcostume  e al potere. Politico o ancora meglio, socialmente impegnato è del resto tutto LA PARTE MIGLIORE; anche nei suoi momenti meno sferzanti infatti il cd non teme censure né cerca facili consolazioni attraverso il ricorso a frasi fatte e rime scontate. Insomnia, sghemba e violenta, celebra nuovamente alla luce del sole una nuova liturgia, questa volta fra sangue e piombo, inducendo ad una marcata riflessione tesa a smuovere le coscienze. Ma c'è spazio pure per quell'oscurità luciferina che forse solo Rita "Lilith" Oberti ha saputo davvero cantare con i Not Moving prima e i Sinnersaints poi. Essa emerge sulfurea a colloquio con L'Indovino Islandese e nel luttuoso cantato della classicheggiante Epoché qualche istante prima di evaporare senza quasi lasciar traccia. Grinta, carattere e forti contrasti. Di tutto ciò vive l'esordio solista della Napoleone. Una donna sola a capo di un grande disco, altisonante come il cognome della sua interprete. Una autentica perla da fare propria e conservare gelosamente fino al prossimo appuntamento. Del resto, una volta ancora, garantisce Orange Home.

mercoledì 16 luglio 2014

LUME

LUME
Lume
- Blinde Proteus - 2014

Creatura multiforme questo Lume. Un addomesticato cerbero a tre teste che abita il sottobosco dell'indie rock tra psichedelia e onirismo pop. Nato dall'incontro fra la bassista Anna Carazzai, una vita con i Love in Elevator di cui i Lume potenziano la proposta, e Andrea Abbrescia (altro collaboratore dei LiE) in combutta con il martellante Franz Valente preso in prestito nelle ore d'aria concesse da Il Teatro degli Orrori, l'estemporaneo trio lombardo-veneto ha sviluppato relativamente presto un set di brani che deve aver dato fin da subito una qualche parvenza di potenziale autonomia dai lavori delle varie band di appartenenza. Approfondita la reale tenuta di questo e del materiale proposto in un secondo momento da Valente ci si è accorti di come tutto filasse per il verso giusto senza alcuna forzatura o, peggio, imposizione esterna. Dunque, buona la prima. Nulla di rivoluzionario sia ben chiaro, ma molta energia e una buona dose di improvvisazione, che giocoforza conferiscono una netta percezione di libertà creativa, sono gli ingredienti principali per un pasto rapido eppure sostanzialmente completo. Una batteria "pestona" e un divertito mood da dancing padano da favolosi anni '60 bagnano il singolo Lucky Number, primo episodio su cui fanno capolino alcuni degli ospiti che via via si alterneranno in studio. Marco Fasolo, autore fra l'altro di missaggi e masterizzazione, è il chitarrista aggiunto che porta con sé il compagno di merende Liviano Mos, altro membro della famiglia allargata a comparire nel disco vista la sua militanza tanto negli Love in Elevator quanto nei Jennifer Gentle, alle tastiere. Quelle stesse che imperversano nella sakeesadiana Domino e che trovano un fertile terreno psichedelico in Bye Bye Baby dopo aver remiscelato la cupezza meccanica di Charge, notevole esempio di quello che i Lume potrebbero avere nuovamente in serbo in futuro se continuassero su una strada oscura e irta di asperità metalliche. Aero Bleach sembra omaggiare ciò che fecero i Nirvana con Aero Zeppelin, questa volta prendendo come riferimento iniziale proprio la band di Cobain e compenetrandone la distruttiva forza punk con una progressione rock ruvida e caotica; di contro c'è Elastica, la più melodica delle tracce e forse la meno riuscita, statica e monocorde. Caratteristica abbastanza peculiare del lavoro è il flusso senza soluzione di continuità che lega quasi sempre a coppie di due alcune canzoni, come a voler porre l'ascoltatore di fronte a un intreccio perpetuo tra suoni aspri, distorti, esagitati e paesaggi sonori fatti di lande e territori illuminati da una tenue luce mattutina. E mentre la predominanza delle vocals è a carico di Anna (potenziata dai cori di Elisa Mezzanotte nella piacevole Bad Daughter ed estremamente sicura in Sparks Were Flying)  piace molto l'atmosfera di cupezza che il cantato di Valente sa conferire nei momenti migliori del cd, corrompendo e sporcando gli spiritelli umbratili che sembrano di continuo essere evocati dalle ipnotiche note lambite dalla Carazzai. La sensazione che Lume (la band e il cd) sia però un progetto estemporaneo è costante; che possa esaurirsi nell'arco di un disco o due oppure che tenda ad evolversi per divenire altro ancora poco importa. Detto questo è altrettanto vero che avendo la possibilità, e soprattutto la volontà, di dar vita a un progetto parallelo fatto anche per premiare la costanza di un'amicizia di lunga data è quanto di più duraturo possa esistere. Del resto ciascuno mostra quello che è anche dagli amici che ha.

venerdì 11 luglio 2014

WAVEFOLD

WAVEFOLD
The Whip Hand
- Rock Contest Records/Strawberry Records - 2014

Discepolo della new wave più scura e claustrofobica il giovanissimo trio pugliese dei Whip Hand ha incantato i giurati dell'edizione 2013 di Rock Contest, riunitisi lo scorso dicembre presso l'Auditorium Flog di Firenze, senza essersi prefissati alcun altro obiettivo che non fosse quello di suonare per il gusto di suonare, davanti certo ad un pubblico diverso rispetto al solito, ma proprio per questo magari anche più ricettivo. Di certo ugualmente attento. Per raggiungere questo scopo a Toni, Gianni e Francesco sono bastate una batteria minimale ridotta all'osso, una Fender Jaguar come molte ce ne sono in giro e un basso senza troppe pretese. Queste le armi impugnate con apparente freddezza, ma consapevole dedizione fin dalle eliminatorie fiorentine. E questi gli strumenti con cui sono soliti esibirsi ancora oggi con estrema disinvoltura nei piccoli club di provincia. Alla base una naturale predisposizione all'impegno e al sacrificio, disillusi dai roboanti proclami dell'ormai sempre più collassante music biz e rassicurati dal riscontro degli addetti ai lavori. Collante necessario per la buona riuscita del progetto, di cui WAVEFOLD rappresenta un primo punto di arrivo concretizzatosi grazie ai meriti espressi sul palco della manifestazione organizzata e promossa da Controradio, è una comune eccitazione per tutto ciò che è musicalmente gravitato attorno all'orbita della Londra post punk a cavallo tra fine 70's e prima metà degli 80's e che già si era materializzato nel promettentissimo ep MIST autoprodotto inseguendo un sogno: emanciparsi da ogni tipo di limitazione contingente rivendicando le proprie passioni. Like there is no tomorrow. Andando così ad attingere a piene mani nelle serrate cavalcate dark wave e post punk di fine secolo, tra suggestioni emotive e pulsante rabbia interiore mutuate da Southern Death Cult, Cure, primi U2 e, giusto per restare in terra toscana Neon, Diaframma e primissimi Litfiba, i Whip Hand si tuffano nell'ipnotico vortice sonoro di feedback e marzialità a cui hanno sempre guardato. Qui coadiuvati dai sintetizzatori manovrati da Vincenzo Zingaro, nella stanza dei bottoni del mitico Larione 10 in compagnia di quel Sergio Salaorni che non ha certo bisogno di presentazioni, hanno modo di mettere in bella copia anche i pezzi più datati come A, Like Water e Arm per quello che risulta essere un propedeutico viaggio sonico nel passato iniziato in un'epoca ancora precedente e, data la sospensione evocata anche dalla brevità dei titoli scelti, senza tempo. Basso lineare sempre ben in vista (Try, Lost), voce cupa e ansiogena lievemente effettata e chitarra mai invadente, ma presente: la ricetta sembra semplice, ma non è affatto così scontata. Il pericolo di cadere in un inutile manierismo è infatti sempre dietro l'angolo; un rischio evitabile solo quando le coordinate non sono studiate a tavolino, quando non si teme la caduta e non si ragiona in quell'ottica. Una eventualità presto fugata quando in gioco si mettono forze diverse che necessariamente trovano un linguaggio comune, all'apparenza anche meccanico, con cui comunicare e trasmettere emozioni. Basta seguire la strada e prima o poi si fa il giro del mondo.

mercoledì 9 luglio 2014

DISGUISE OF THE SPECIES

DISGUISE OF THE SPECIES
Glass Cosmos
- autoproduzione - 2014

Non c'è che dire. Alta qualità per i Glass Cosmos. Fin dalla copertina sembra abbastanza evidente che nulla sia stato lasciato al caso dal combo nato sulle ceneri dei Cheap Mondays. Quando mai trovi infatti una band che al disco d'esordio decide di affidarsi ad un quadro di Magritte per veicolare anche visivamente la propria musica? Rielaborato graficamente dall'amico Alessio Caglioni, bassista dei corregionali Last Fight, il pesce-sirena tratto da L'illusione collettiva è, nelle intenzioni della band bergamasca, lo specchio dei tempi in cui si riflette l'atteggiamento di molti giovani artisti, o più verosimilmente presunti tali, che pur di ottenere una fugace visibilità nell'immediato e, come si suole dire, "ballare anche una sola estate", rinunciano ben presto ad approfondire e sviluppare il lavoro sulle proprie abilità ricercando nel rintronante tepore del calderone mediatico il consenso effimero, l'applauso mondano, l'ossigeno corrotto per restare a galla un istante ancora prima di venire risucchiati dal gorgo dell'oblio permanente. Cambiare per non cambiare mai. Una metafora del nostro quotidiano, presto estendibile a molte realtà dell'agire umano. A questa mancanza di progettualità a lunga gittata rispondono con tutte le loro forze la voce di Frankie Bianchi, la chitarra di Florian Hoxha e il basso di Francesco Arciprete che, in compagnia dell'ultimo arrivato Matteo Belloli alla batteria, si prodigano nella realizzazione di un lavoro potente e spumeggiante insieme, per nulla facile alle lusinghe superficiali e al consenso temporaneo, ma piuttosto ben radicato nella appartenenza ad un contesto di spessore, lontano dalle mode del momento e che mal si coniuga con le trattazioni sbrigative. Con una eterogeneità di fondo che in questi casi non guasta mai, l'esplosione di energia rilasciata dalla sfavillante Milestone ci fa capire che i tempi della passata esperienza musicale sono pressoché finiti - fatta eccezione per il retaggio indie rock molto British di A Slim Pixie, Thin And Forlorn, titolo preso in prestito da una lirica contenuta nell'oscura Crowds dei Bauhaus - mentre si staglia all'orizzonte una riuscita miscela di hard (It Won't Be Long Till Dawn, Redemption Is A Pathway To Nihilism) e vorticosa "new noise wave" (l'introspettiva O Tempora, O Mores, il singolo Chrono) consolidata da ariose melodie pop che toccano il loro vertice nell'utopica Libreville e nella visionaria New Shores. Una naturale attitudine emo, condita da fiammate post punk, completa (e distorce) poi il tutto. Con cognizione di causa e determinazione. Se davvero crescere significa mettersi in discussione, accettare critiche, scambiarsi idee, confrontarsi i Glass Cosmos fissano con DISGUISE OF THE SPECIES la pietra angolare su cui poggiare ogni successiva mossa alla ricerca di quella espressività sincera che rifugge maschere e camuffamenti, rivela passioni oscure, ma ardenti e libera l'individuo. Il sacro fuoco dell'Arte insomma. Il principio che espone il fine. Per essere e non per apparire.

martedì 8 luglio 2014

da COSTELLAZIONI

I DESTINI GENERALI
- Le Luci della Centrale Elettrica - 2014
 

 
Regia e animazione di Michele Bernardi
Danzatrice: Alice Guazzotti

venerdì 4 luglio 2014

ALIBI

ALIBI
GBU
- autoproduzione - 2014

A raccontare le vicissitudini degli GBU non basterebbe probabilmente un libro. Nati nell'inverno del 2010 per volontà del cantante-chitarrista Luca Iaconissi, negli anni a venire sarebbero ben presto andati incontro a costanti cambi di organico che tuttavia non ne avrebbero modificato eccessivamente la ragione sociale, ma semplicemente rallentato la produzione discografica. Frutto di quattro anni di lavoro ALIBI è il disco d'esordio per il trio friulano che dopo un primo omonimo ep conoscitivo, dal quale vengono qui riproposti in versione uploadata tre pezzi, riescono finalmente nell'intento di dare alle stampe un biglietto da visita più corposo ed articolato. Come tutte le prime volte che si rispettino anche questo lavoro è il raccolto in musica di quanto seminato in sala prove e on stage dalla giovane formazione tolmezzina in quasi un lustro di esistenza. E se la sua passione per i grandi classici del rock inglese anni '70 va a braccetto con l'ondata grunge di inizio anni '90 sarà opportuno prepararsi a una scarica di decibel smorzata da una certa psichedelia sghemba e anfetaminica mutuata da Jennifer Gentle e Syd Barrett. Se è vero poi che gli album capaci di mischiare troppi umori sono spesso pericolosi per chi li fa prima  ancora che per chi li ascolta, i GBU cercano di andare sul sicuro proponendo, tra citazioni più o meno scoperte, un suono robusto (la carica di Charlie è la risposta italiana a Go dei Perl Jam) che sappia unire sudore e mestiere, ma anche visceralità punk e un'ortodossia rock di spessore, nell'intento di scrivere una musica "che possa piacere tanto ad un pubblico non musicofilo quanto ad un ascoltatore più attento e musicalmente più colto, cercando di non chiudersi in uno schema e non fermarsi ad un genere". Così il Good, il Bad e l'Ugly si sono espressi nelle note di presentazione alla stampa allegate al cd. Per cui se alla foga sincopata di Blue fa da contraltare l'interludio strumentale concentrato nel minuto e mezzo di Feeble Flame, sospeso e oniricamente prog, non si resti spiazzati; è semplicemente la volontà dei tre ragazzi di dar vita ad un puzzle sonoro di gran prospettiva, supportato da tante idee e più adeguati mezzi rispetto al passato. Il bagaglio mostrato nell'abbondante mezz'ora che dà vita a questo ALIBI comprende poi tutto un repertorio di formule e suoni capaci di andare dal funky-garage della già nota Problems, con il suo ritornello che rimanda all'inquietante Alice Cooper di Black Juju, fino ai Red Hot Chili Peppers di BY THE WAY, ma con Frusciante al posto di Kiedis dietro al microfono, omaggiati in Cigarettes, passando per l'inatteso snippet metallico di una rallentata Can't Take My Eyes Off You contenuto nell'agitato caos stilistico di Circus. Arrivati a Last Will il pensiero corre rapido al camaleontico trasformismo che solo i Faith No More hanno saputo sviluppare in maniera credibile costruendo una gloriosa carriera a suon di dischi imprescindibili. Ora, non che i GBU siano i più diretti emuli di Patton e soci, ma senza dubbio la facilità con cui hanno saputo esprimersi li mette davanti ad un (piacevole) bivio: continuare nella patchanka sonora tout court continuando a sfornare idee e riff utili per costruire un birignao di qualità oppure convogliare le proprie energie e indirizzarsi verso un sound, riconoscibile e peculiare, che permetta loro di maturare e ritagliarsi uno spazio certo e sicuro. Bizzarri, ma con cervello.

giovedì 3 luglio 2014

VIA CRUCIS

VIA CRUCIS
Karenina
- autoproduzione - 2014

Buone notizie da Bergamo e dintorni. Tornano i Karenina con un album che supera di slancio i precedenti lavori proposti nel recente passato dopo l'abbandono dell'antico moniker Triste Colore Rosa. VIA CRUCIS è difatti il disco che mancava, quello meritevole di attenzione, senza dubbio il più completo e maturo, forse paradossalmente il più rischioso nella fin qui breve avventura discografica dei Nostri. Mandata a memoria la lezione degli Amor Fou, veicolata da una altrettanto efficace capacità di narrazione metropolitana, ma supportata da una maggior violenza sonora che qua e là riprende i Negramaro degli esordi, la tensione emotiva che pervade i solchi del vinile nelle nostre mani emerge in tutta la sua dinamica ed esplosiva concatenazione di eventi. Quella che ha portato ad avere in meno di un decennio un paese in recessione, con il 41% dei giovani disoccupati e un confusionario malcontento generale figlio di scelte sbagliate e diffuse incapacità gestionali. Questo è l'humus, il contesto in cui si consumano disturbanti e sanguinari fatti di cronaca provinciale (20 Novembre 2010, 26 febbraio 2011) dati smodatamente in pasto - proprio per lo sconcertante relativismo di cui sopra - a becere cagne del teleschermo che latrano concupiscenti tra una telepromozione e l'ennesimo ammiccamento senza vergogna. Si impone una riflessione. E una nuova esposizione. Se necessario addirittura il silenzio. Così deve aver pensato il quintetto di Francesco Bresciani che, partendo da tutto questo sistema feroce e disumano, è riuscito poco per volta a isolarsi dallo stagnante frastuono mediatico, continuativo ed esasperato, per mettere in musica un non facile spaccato di ordinaria follia. Con una presa di coscienza sociale che fa di VIA CRUCIS un album politico - niente affatto partitico - nella sua sensibilità più popolare, lontano da pretenziose mire giustizialiste, ma ampiamente "dentro" la vicenda raccontata con discrezione e rispetto. Romanzata come si conviene, tra rabbia e candore adolescenziale. Spiace che per trattare argomenti difficili ci si debba muovere una volta ancora autonomamente, ma a quanto pare anche solo evocare con un racconto la figura di una ragazzina massacrata suo malgrado a pochi metri da casa spaventa pure chi non ha responsabilità oggettive nei crimini eppure teme di dispiacere un'opinione pubblica abulica rilasciando un elaborato artistico che si avvale delle trovate grafico-espressive di Roberto Pesenti. Se non altro ciò che si perde a livello di mezzi e risorse promozionali si guadagna in termini di libertà, espressive e gestionali. Così i Karenina fanno di necessità virtù anche da un punto di vista commerciale decidendo di supportare le undici stazioni del disco con una formula certamente ragionata anche quando audace: quella del download gratuito su tutti i propri spazi web, con la vendita del vinile (con cd-r allegato) relegata ai soli concerti. Scelta controcorrente che meriterebbe non solo il plauso del pubblico, ma anche il suo sostegno concreto perché la visione globale offerta attraverso il rinnovamento di consolidate formule rock e un tormento narrativo da concept album è testimonianza di una vivace attività culturale non così scontata al giorno d'oggi. Una goccia di spazio infinito a portata di mano.

lunedì 30 giugno 2014

ROOTS & WINGS

ROOTS & WINGS
Stef Burns League
- UltraTempo Records - 2014

L'ha preparata bene. L'ha preparata come è spesso consuetudine negli Stati Uniti, con un mini tour di presentazione, anzi addirittura anticipatorio, per testare dal vivo le nuove canzoni che sarebbero successivamente confluite nel suo nuovo album. Stef Burns ha deciso di giocare sul fattore sorpresa con quella prima manciata di concerti tenuti a cavallo fra la fine di aprile e gli inizi di maggio dello scorso anno. Un blitz in piena regola in alcuni piccoli locali del nostro Paese supportato dagli storici collaboratori Juan Van Emmerloot e Fabio Valdemarin e in collaborazione con la new entry Roberto Tiranti al basso e seconda voce. Una importante tappa di avvicinamento all'uscita di ROOTS & WINGS per ingannare l'attesa e apportare con la sua League di fiducia eventuali piccole migliorie ai brani in lavorazione. Quello che abbiamo fra le mani è dunque il risultato di un lavoro meticoloso in cui nulla è lasciato al caso pur non perdendo un solo grammo di tutta quella freschezza e spontaneità che si richiede ad un album di puro rock. Sì, perché il terzo album solista di Burns è il suo primo a spingere davvero sull'accelleratore, aprendo il gas senza paura quando necessario e inanellando una serie di canzoni muscolari e potenti. Più omogeneo da questo punto di vista rispetto al precedente WORLD, UNIVERSE, INFINITY il nuovo cd possiede un appeal tutto americano come dimostra l'atmosfera da grandi spazi aperti, ma anche un po' working class hero a metà strada tra Jon Bon Jovi e Bruce Springsteen, di Miracle Days senza mai rinunciare a quel gusto per la melodia che crediamo esser stata ampiamente sviluppata dall'ex chitarrista di Alice Cooper nel corso degli anni passati accanto a Vasco Rossi e al suo team di lavoro. Il rilassato e contemplativo fraseggio di Home Again, ad esempio, è la prova provata di quanto detto come del resto rivelano anche la struttura tutta della dell'energetica opener - nonché primo singolo - What Doesn't Kill Us e le armonizzazioni vocali della collaudata Something Beautiful. Protagonista assoluta, seppure mai narcisa o troppo compiaciuta di sé, è evidentemente la Stratocaster di Burns che in questa continua compenetrazione tra grinta ed emotività mette allo scoperto un'anima passionale e pura, riflesso dei due mondi in cui l'uomo che la suona si specchia costantemente, respirando il profumo della madre patria USA (le radici) e lasciandosi cullare dal caldo abbraccio dell'Italia, insospettabile terra adottiva in cui sarebbe pure sbocciato l'Amore (le ali). Tastiere orchestrate à-la Mike Moran dall'amico Alberto Rocchetti nella strumentale - unico esempio in tal senso insieme all'ottima Us, sviluppata come rock blues e chiusa in chiave prog - Sky Angel, titolare di un suono chitarristico dilatato che qui accomuna Stef Burns al miglior Brian May e all'altro asso della sei corde Jeff Beck. E se nell'oscura title track sembra di ascoltare la voce di Bruce Kulick ai tempi del controverso CARNIVAL OF SOULS e del consigliatissimo BK3 - con una chitarra che si inchina di fronte al ricordo del Jimmy Page prima maniera, in Patience sgorga spontaneo tutta l'ammirazione per i Beatles di Stef "McCartney from Benicia". C'è ancora tempo per un po' di funky, per qualche power chords e qualche altra misurata svisata, giusto per completare una prova fresca e matura, non certo rivoluzionaria, ma in linea con il carattere del suo autore che negli amanti dell'hard rock classico e in tutti coloro i quali dalla musica ricercano un suono tagliente al servizio della forma canzone guarda con ricambiata stima e simpatia. Una summa degli ultimi 40 anni di rock sulle strade del nuovo millennio quando la comunicazione si è imposta come bisogno, ma l'ascolto è diventato arte.
 
un link al seguente post è presente qui: http://www.facebook.com/stefburnsofficial

giovedì 26 giugno 2014

TRE

TRE
Ismael
- autoproduzione - 2014

C'è davvero tanta tradizione cantautorale italiana nel terzo album degli emiliani Ismael. Mascherata. Ma c'è. Ben più di quello che si potrebbe pensare. Anche quando, come accaduto negli ultimi tempi, le chitarre si elettrificano attraverso jack e amplificatori emerge sempre preponderante la componente testuale attorno alla quale la musica si adegua di volta in volta bilanciando aspirazioni colte e dinamiche underground. La storia dell'attuale quintetto sassolese racconta un passato fatto di dubbi e ripartenze, supportato da un presente all'apparenza più definito che va ricalcando in musica la tenacia del fondatore Sandro Campani. Dopo l'utile esperienza con i Sycamore Trees, lo scrittore di Montefiorino si è gettato a capofitto in questa nuova avventura musicale, giunta ormai al decimo anno di vita e bagnata da un amore per il folk condiviso dalla sodale Barbara Morini, nel tentativo di dare alle stampe un lavoro finalmente completo su cui costruire un futuro solido in salsa padana. Molti i numi tutelari seguiti con deferenza oppure affiancati inconsapevolmente nello sviluppo delle nuove canzoni proposte; gianCarlo Onorato (l'ottima Le Tre) e il post punk su tutti; Cesare Basile (la scarnificata Canzone Del Cigno), ma anche Vasco Brondi con la sua urgenza espressiva degli anni Zero - a sua volta debitore del sempre carismatico Giovanni Lindo Ferretti - e il Capovilla de Il Teatro degli Orrori (Palinka) a pari merito, non poteva che essere così, dei primi, seminali, Marlene Kuntz. Ma mentre Godano e soci fin dai tempi del famigerato trittico CATARTICA-IL VILE-HO UCCISO PARANOIA avevano trovato presto la quadratura del cerchio per le loro composizioni alla pari di meteore come i milanesissimi Pila Weston di Carino E Sleale, gli Ismael ancora faticano a dare compiutezza in chiave rock alle loro comunque apprezzabili idee. Gli episodi migliori restano infatti le ballate acustiche e i brani meno irruenti (San Giovanni Di Querciola) che culminano in quello splendido strumentale che è l'evocativa Tema Di Irene. Paradigmatica in questo senso è la Canzone Del Bisonte, gucciniana fino al midollo, quasi uno scarto andato a suo tempo inspiegabilmente perduto e per fortuna riportato alla luce direttamente da FOLK BEAT N.1 e DUE ANNI DOPO, alla quale è facile affiancare il garage-beat del nuovo millennio di Se Non A Te. Piacciono le misurate inserzioni di sax a cura di Piwy Del Villano, musico già in passato al fianco del rambler modenese Luca Serio Bertolini, e il pianoforte del gradito ospite Emiliano Mazzoni, in procinto di rilasciare un disco solista nel corso dell'anno. Pregi su cui continuare a lavorare per trovare con il tempo l'amalgama necessaria per cucirsi addosso panni tagliati su misura e non semplicemente in maniera dozzinale. Ampi dunque i margini di miglioramento all'orizzonte anche se emergere in tempi brevi dall'affollato calderone posto sopra le braci del rock italico sembra, al momento, una possibilità ancora remota per il combo di Campani. Saprà nei fatti smentirci? L'augurio è un incoraggiamento.

mercoledì 25 giugno 2014

LA VIA DELLA SALUTE

LA VIA DELLA SALUTE
Fedora Saura
- Pulver & Asche Records - 2014 

Chissà cosa avrebbe pensato Giorgio Gaber dopo aver ascoltato le prime note di Peso/Mondo (Della Civiltà Civetta), brano di apertura al secondo lavoro dei ticinesi Fedora Saura, ma soprattutto dopo aver udito la voce di Marko Miladinovic, frontman dell'ensemble svizzero, così ben scandita e naturalmente modulata sulle frequenze di quella dell'indimenticato cantautore e performer milanese?! Seppur rivestite da sonorità diversamente cantautoriali, pronte a sconfinare nel rock più teatrale, le corde vocali del cantautore elvetico sono la prima fra le tante note liete che colpiscono l'ascoltatore incamminatosi di buona lena su LA VIA DELLA SALUTE. Saremo pronti alla rivoluzione annunciata e rivendicata da più parti? Certo, ma, ammoniscono neanche troppo sarcastici i Fedora Saura, solo scontrino alla mano, pedine consapevolmente colpevoli - ben più di quello che si è soliti pensare - di un sistema più grande di noi, capace di viziarci e coccolarci fino a ridurci all'immobilità, all'inazione, alla schiavitù dell'intelletto. Nel loro teatro-canzone contaminato da punk, jazz e lontanissimi echi di rock balcanico non c'è posto dunque per le mezze misure o qualsiasi altra forma di compromesso. Per raggiungere l'obiettivo dobbiamo essere realisti e concreti come lo sono loro, affabulanti scardinatori della parola e visionari equilibristi musicali, slegati da qualunque vincolo che non sia quello della reciproca attenzione all'altro. Senza scadere nell'anarchia, ma senza neppure restare legati al palo di dogmi e verità incontrovertibili, ecco compiersi "un pellegrinaggio - razionalista - tracciato dall'esperienza nel quotidiano, (...) lungo itinerari e sentieri gelosamente conservati nella memoria" recuperati dall'oblio in cui si vorrebbero far cadere. Non ci si senta perciò vittime di ingiustizie: bugiardi in fin dei conti lo siamo tutti. Soddisfatti e pure indolenti. E se Soma Pneumatico riecheggia nel suo lento sviluppo la lezione dei CCCP-Fedeli Alla Linea, Tenete Buoni Quei Cani partendo dalla caducità del divenire umano, torna ad indagare con accento e lucidità gaberiane in maniera quasi epicurea il tema della morte e di una dimensione ultraterrena di cui ora non ci è dato sapere e su cui nulla si può dire. Mentre solitamente sono le chitarre ad occuparsi di tessere trame sghembe e serrate, negli oltre 17 minuti lungo cui si dipana la progressione emancipata di Ex Europa Samba I II III (Est Euroba Sampa Xigareta) è piuttosto il pianoforte di Claudio Büchler a dare il là ai movimenti più arditi delle tre sezione che la compongono. Nell'ultima di queste, la viziosa Bagatella, il soprano serbo Sandra Ranisavljevic è il contro(in)canto magrebino-arabeggiante che colora di antiche corrispondenze il decadimento morale e il malcostume di una certa politica italiana prima di lasciare posto alla conclusiva Continentale (Artista Visiva), legata a doppio mandato con la canzone che la precede. Sempre sul filo dell'involontaria provocazione e con una radicalità di pensiero non comune. Chi dalla musica cerca una passiva immediatezza non troverà nei Fedora Saura alcuno stimolo per la propria ovattata curiosità; certamente saprà rivolgersi altrove per continuare a stordirsi di metadone culturale. Chi, invece, vorrà mettersi in discussione una volta ancora con il proprio gusto innato all'apertura e al confronto beh, qua troverà pane per i suoi denti. Perché in fin dei conti fare il proprio dovere è una questione di principio che si fa per sé stessi e per la propria dignità. Non certo per il plauso finale.

martedì 24 giugno 2014

PICCOLO ATLANTE DELLE COSTELLAZIONI ESTINTE

PICCOLO ATLANTE DELLE COSTELLAZIONI ESTINTE
Patrizio Fariselli
- Sony Classical - 2014

Quante volte ci è capitato di guardare il cielo in una notte d'estate e osservare nella quiete della sera le miriadi di stelle che tempestano la volta celeste riflettendo sull'essenza della vita e del cosmo o magari, molto più semplicemente, improvvisandoci "astronomi" in erba nel tentativo di identificare qualche costellazione diversa dalla classica Orsa Maggiora (con corrispettivo Piccolo Carro al seguito) mettendo a frutto le nozioni imparate distrattamente a scuola!? Quante occasioni abbiamo avuto fino ad oggi - e quante ne avremo ancora - per scrutare al di là della nostra atmosfera, con occhi ben aperti oltre quella finestra spalancata sull'infinito che perennemente ci contiene? Innumerevoli, come innumerevoli sono i nostri pensieri a riguardo, intimi e personalissimi, così semplici da condividere, ma al tempo stesso di non facile spiegazione. Affascinato come molti dai racconti legati all'astronomia e dai miti ad essa legati, Patrizio Fariselli dedica gran parte della sua ultima fatica discografica in solitaria ad una realtà dimenticata della cartografia celeste: le costellazioni obsolete, quell'insieme di assembramenti prospettici di stelle non ufficialmente riconosciuti dall'Unione Astronomica Internazionale a partire dal 1922 e per questo oggi non più in uso. Una suite articolata in dodici momenti per i quali ad ogni improvvisazione al pianoforte, coadiuvata da un ring modulator, corrisponde una di queste costellazioni estinte. Il criterio di associazione è uno solo: la sensibilità dello stesso Fariselli il quale, suggestionato da alcune di quelle visioni che per un motivo o per l'altro hanno "fallito", restituisce innanzitutto a sé stesso e in seconda battuta all'ascoltatore una contemplazione personalissima della volta celeste apocrifa, costruendo nuove prospettive come quelle alla base delle costellazioni stesse. In questo modo, anche nell'oscurità di una stanza, l'uomo tornerà a fissare il cielo con gli occhi della mente, orientandosi e perdendosi insieme. Viaggerà a bordo della mitica Argo Navis esplorando mondi sconosciuti che lo condurranno al limite delle terre emerse al cospetto del Polophilax; approfondirà la conoscenza della fauna terrestre e di quella acquatica, allargherà gli orizzonti della sua conoscenza per poi ripiegare verso casa a bordo di un leggiadro Globus Aerostaticus, pionieristico mezzo di locomozione celeste che lo ricondurrà alla propria dimora dove, ad attenderlo, troverà un piccolo e dispettoso Felis con cui giocare, come da bambino, prima di addormentarsi. Al risveglio ci sarà spazio per nuova musica. Quella di Home Music, improvvisazione ambientale concepita in maniera semplice attraverso un microfono e la finestra di casa spalancata sull'esterno, che fissa su nastro i rumori della natura circostante all'arrivo di un temporale estivo quando, nell'aria umida e già carica di pioggia, balenano lampi e si sparge minaccioso il fragore del tuono. E infine un omaggio. La conclusiva Taqsim è tutta dedicata ad Abdallah Chahine, musicista ed accordatore libanese che seppe inventare un pianoforte unico nel suo genere in grado di suonare sia con l'accordatura occidentale sia con quella orientale, ma soprattutto possessore di un respiro sullo strumento unico e al quale Fariselli guarda con attenzione mettendolo al servizio della sua ultima composizione. Cd da meditazione terrena in ambiente chiuso, con quella poca luce tardo-pomeridiana a filtrare attraverso le tapparelle, ma anche raccolta musicale da spazio aperto, notturno ed evocativo, PICCOLO ATLANTE DELLE COSTELLAZIONI ESTINTE è tutto questo e molto altro ancora: l'ennesima prova provata di come sette note musicali siano in grado di costruire mondi alternativi sfruttando una dimensione spazio-temporale spesso nascosta al quotidiano, ma che riposa in quell'essere umano così abile a ricostruire sé ed il proprio pensiero di fronte al creato. E le stelle stanno a guardare...